La socialdemocrazia europea se la passa piuttosto male. Parlo di socialdemocrazia e non di socialismo – come invece sento e leggo in giro – perché: 1) non sono precisamente la stessa cosa e 2) di socialismo in Europa non ce n’è rimasto molto, neanche a livello teorico.
In Germania la SPD decide di aderire alla “Grande coalizione” con i democristiani di Angela Merkel. Lo fa al prezzo di una spaccatura interna al limite della scissione e di un ruzzolone nel consenso popolare fino ai minimi termini mai toccati in tutto il secondo dopoguerra.
In Francia quel che restava della sinistra repubblicana (che in Francia vuol dire nazionalista e centralista) è stato devastato e in parte fagocitato del “rottamatore” amato dai grandi gruppi finanziari Manuel Macron.
Nel Regno Unito, dopo i disastri del New Labour di quel bel tomo di Tony Blair, una parte delle residue istanze socialdemocratiche se le è accaparrate lo SNP, in Scozia, e in parte il Labour Party di Corbyn (a fatica e con evidenti tentennamenti).
In Grecia, l’esperienza del governo Tsipras ha confermato, anziché contrastare, il dominio della logica dell’austerità (ossia la prevalenza degli interessi finanziari dell’oligarchia economica internazionale) sulla democrazia, i diritti sociali, le prospettive di autodeterminazione del popolo ellenico.
In Italia sappiamo che la sinistra di matrice socialista e comunista è residua, marginale e divisa. I tentativi di rianimarla spesso si schiantano sulle voglie arriviste di leader piccoli, senza grandi idee e senza più una base sociale di riferimento.
In Sud America, dopo la ventata di nuovo socialismo latino-americano, variamente (e ambiguamente, diciamolo) declinato, siamo nel bel mezzo di una reazione destrorsa di quelle brutte.
Intendiamoci, non è strano che la socialdemocrazia stia agonizzando. È normale che, in tempi di polarizzazioni e radicalizzazioni dei rapporti sociali, essa sia una risposta che non serve a nessuno. Non garantisce abbastanza i padroni e non promette abbastanza agli esclusi.
Esclusi che sono già un numero consistente e anche in crescita, persino nei paesi ricchi e in Europa. Lo attesta il rapporto che Oxfam, nota organizzazione non governativa britannica, si appresta a presentare a Davos (Confederazione Elvetica), al periodico vertice dei potenti della Terra.
Niente di particolarmente nuovo. Si attesta ancora una volta che nemmeno in presenza della tanto auspicata crescita economica la ricchezza mondiale viene distribuita equamente. Tutt’altro, a guadagnarci sono pressoché esclusivamente i già ricchi. L’1% della popolazione mondiale si è accaparrata nell’ultimo anno l’82% della nuova ricchezza.
Del resto, se guardiamo alla patria del capitalismo contemporaneo, gli USA, a uscire dalle cornici preconfezionate e dalla retorica ideologica egemonica, i disastri sociali di questo modello sono lampanti. Esclusione di massa persino dai diritti minimi di cittadinanza, vaste periferie abbandonate a sé stesse, disagio, criminalizzazione delle classi povere e delle minoranze etniche, ecc.
La crisi non è finita, dunque, solo perché un paio di migliaia di individui ha visto accrescere il proprio ingentissimo patrimonio a discapito del resto dell’umanità e del pianeta.
Quel che è peggio è che non si tratta solo di una crisi congiunturale del meccanismo capitalista internazionale, ma anche una crisi di transizione storica profonda.
Inevitabile che le popolazioni, anche nei paesi che se la passano meglio, siano esposte a un impoverimento crescente.
Per altro non si tratta solo di impoverimento in termini materiali – pure innegabile – ma anche in termini di accesso a beni e servizi fondamentali, che fino a ieri costituivano oggetto di diritti sociali e civili.
A poco servono le vaghe e spesso deboli aperture nel campo di alcuni diritti di cittadinanza (specie riguardo alla piena legittimazione dell’omoaffettività ed altre misure analoghe, limitate a una parte esigua dell’umanità, per altro).
In realtà vediamo che le stesse questioni di genere sono tutt’altro che risolte, che le disparità sono ancora ben presenti e in fase di radicalizzazione, che i rapporti sociali tra individui, oltre che tra classi, stanno diventando sempre più conflittuali.
Non stupisce, ma dovrebbe allarmare, quel che emerge da certe rilevazioni demoscopiche, come l’ultima fatta dalla società Demos di cui informa oggi Repubblica: una parte consistente della popolazione non disdegnerebbe, e in molti casi auspica esplicitamente, una deriva autoritaria e anti-democratica.
Mi pare uno di quei desideri che bisogna stare attenti ad esprimere, perché potrebbe essere esaudito.
Aver scientemente e costantemente indebolito tutti i presidi culturali e civili, in Italia più che altrove, è un pessimo servizio alla democrazia.
Lamentarsi di continuo dell’ignoranza (altrui) e augurarsi un restringimento del suffragio e dei diritti civili, come fanno molti benpensanti (che si ritengono persino di sinistra), è un’adesione essenzialmente stupida (perché autolesionista) a una pressione egemonica solo subita e nemmeno percepita come tale.
Pressione egemonica indirizzata a farci ingoiare la formalizzazione in termini gerarchici e repressivi dei rapporti politici. E meno male che gli ignoranti sono gli altri.
Ovunque vi siano problemi seri di rifiuto di misure calate dall’alto, l’unica risposta ormai è la repressione poliziesca.
Che si tratti di vertenze sindacali, di lotta contro la affermazione pubblica di formazioni fasciste ovvero di NoTav in Val di Susa, NoTap in Salento, lotta contro le servitù militari in Sardegna o processo di indipendenza in Catalogna, è evidente come gli spazi di emersione di una volontà popolare non irregimentata si stiano restringendo a colpi di manganello e di lacrimogeni.
Qualsiasi problema sociale emerga, specie nelle periferie dell’impero e nelle colonie interne, la risposta è: repressione poliziesca. Ultimo esempio, la passerella indegna organizzata a Nuoro nei giorni scorsi per il ministro dell’Interno Minniti. Il cui atteggiamento fieramente littorio ha avuto modo di esprimersi anche in questa circostanza, con la promessa di nuovi contingenti di forze dell’ordine.
Ovviamente, per chiunque abbia ancora un cervello minimamente funzionante, è evidente che se c’è qualcosa di cui non abbiamo affatto bisogno in Sardegna, e a Nuoro in particolare, sono le forze dell’ordine, già abbondantemente sovradimensionate.
Ma è solo un esempio, appunto. Così siamo messi. In Sardegna, in Italia, in Europa e oltre.
Che a fronte di questo andazzo una parte notevole della cittadinanza si esprima a favore di soluzioni autoritarie, anziché solidarizzare con chi le contrasta, è una conseguenza tutt’altro che contro-intuitiva, se si sa come vanno le cose umane.
Appare evidente, insomma, come il fascismo (non importa in quale versione) sia tutt’altro che una faccenda del passato. Che sia un’opzione tutt’altro che teorica, lo dimostra la solerzia con cui i mass media principali e i gruppi di potere dominanti lo stiano solleticando e legittimando.
La risposta democratica e popolare, davanti a questi processi, non può essere l’accondiscendenza, la remissività. Il disastro compiuto alla fine del XX secolo dalle sinistre mondiali è stato funzionale alla loro stessa scomparsa, come vediamo.
Accettare il campo di gioco dell’avversario, rinunciando alla critica radicale e alla proposta alternativa al modello socio-economico e politico dominante, è stato un errore oggettivo.
Certo, ha comportato la rapida carriera di alcuni leader politici, altrimenti destinati all’anonimato. Ma mi sembra un risultato davvero poco soddisfacente, per la gran parte dell’umanità.
Per questo mi ha colpito un recente discorso del vecchio Bernie Sanders, a proposito della grande linea di faglia tra ricchi e privilegiati e poveri ed esclusi del pianeta. Non tanto per il suo contenuto politico (evidentemente vago e generico), quanto perché evidenzia chiaramente il campo di battaglia e la linea del fronte.
Mi interessano poco, a tal proposito, le disquisizioni teoriche e le diatribe dottrinali tra esegeti del pensiero marxiano, le disfide tra dogmatici marxisti-leninisti e dogmatici trotzkisti, le scomuniche incrociate tra confessioni diverse del socialismo storico. Sono battaglia di retroguardia anche un po’ penose, se inserite nel contesto socio-economico ed ecologico attuale.
Non perché non siano importanti gli strumenti teorici e le prospettive politiche di ampio respiro. Lo sono, sia chiaro. Ma sono i termini della questione ad essere ormai del tutto errati.
Se c’è una cosa che ci dovrebbe aver insegnato il materialismo storico è che, nelle analisi e nella ricerca delle soluzioni politiche, bisogna partire dai dati di realtà, fuori dalle cornici ideologiche (leggi “false rappresentazioni della realtà”) di comodo.
Cercare oggi di infilare le dinamiche storiche in corso dentro cornici concettuali nate centocinquanta o cento anni fa è una sciocchezza che viola i principi base di qualsiasi approccio metodologicamente sano.
Ed è il metodo quel che conta, non gli elementi retorici e le formule astratte, né l’ostinazione a tirare per i capelli i riferimenti concreti del passato per incastrarli a forza nella nostra mutata realtà.
Lungi dal volere o poter dare qui risposte soddisfacenti, mi limito a segnalare che ci serve assolutamente una nuova visione strategica generale. Il socialismo non è affatto morto, ma deve essere attualizzato e reso praticabile non solo nel “qui e ora” ma anche nei decenni che verranno.
Un socialismo che tenga conto delle migrazioni di massa come delle istanze di autodeterminazione dei popoli, della crisi della forma stato-nazione come della crisi ambientale, della aspirazione dei paesi emergenti ad un tenore di vita simile a quello dei paesi ricchi come dell’impoverimento delle popolazioni dei medesimi paesi ricchi.
Un socialismo “su scala umana”, che contrasti l’egemonia del padronato mondiale, punti dritto all’eguaglianza, alla pace e alla salute della biosfera, riveda radicalmente il suo statalismo ossessivo compulsivo, tenga conto delle riflessioni sul potere del secondo Novecento, si fondi sul discorso dei beni comuni e sulla conciliazione tra diritti individuali e diritti sociali.
Materiali teorici ed esperienze concrete da assemblare ne abbiamo già a disposizione. E che ogni popolo trovi la sua via. Non in contrasto con gli altri, ma insieme, e convenendo sul fatto che sia necessario conciliare l’autodeterminazione su scala locale con l’universalismo dei diritti e della solidarietà internazionale.
Onestamente, non vedo altra via di salvezza che questa.