Il presidente della Regione Sardegna, Francesco Pigliaru, annuncia la messa in vendita sul mercato internazionale della tenuta di Surigheddu e Mamuntanas, 1200 ettari in agro di Alghero, di proprietà pubblica (regionale). Lo fa con enfasi, sottolineando che così si garantirà la migliore allocazione e la maggiore valorizzazione di questa risorsa.
Si tratta, com’è evidente, di una banale e del tutto passiva adesione a ricette politiche astratte, già da tempo rivelatesi mortifere, oltre che mortificanti. Un patrimonio di terre agricole, infrastrutturate e già di proprietà pubblica, verrà ceduto a qualche grande gruppo di interesse straniero, sic et simpliciter, in una compravendita in cui la Regione Sardegna non sarà nemmeno in grado di porre condizioni.
Nella condizione di debolezza economica e politica in cui si trova, la Sardegna può attirare capitali stranieri solo in virtù della sua passività verso qualsiasi interesse forte, a prescindere e spesso a danno di interessi locali rilevanti e magari anche strategici. E’ un punto da tenere sempre a mente, per uscire dall’astrattezza a-storica in cui sembrano vivere i professori dell’attuale giunta regionale.
Questa però non è l’unica strada percorribile. La produzione agricola e agroalimentare in Sardegna è in una situazione di sottovalorizzazione lampante. Il fabbisogno interno viene coperto per percentuali elevatissime (si parla dell’80%) dalle importazioni, in una terra che da secoli ha avuto nella vocazione agricola e nella diversificazione delle produzioni un suo fattore costitutivo.
Oggi siamo stretti tra le dinamiche dei mercati internazionali, che subiamo senza saperle sfruttare a nostro vantaggio, e la totale assenza di visione politica della nostra classe dirigente. Così, mentre la Sardegna esporta quasi solo prodotti petroliferi, un territorio come il Trentino fonda una parte consistente del suo PIL sull’esportazione di prodotti agricoli (mele e vino soprattutto).
Non che il Trentino sia in tutto e per tutto un modello vincente. La monocoltura della mela sta già mostrando il suo lato meno esaltante. Però è indubbio che si tratta di un territorio difficile per l’agricoltura, sia per orografia sia per latitudine, e che pure ne ha fatto una voce vincente della sua economia.
La Sardegna in questo senso ha delle potenzialità decisamente maggiori, anche solo per la quantità e la diversità delle produzioni. Dovremmo cercare di entrare nei mercati con prodotti di qualità, che non subiscano la concorrenza da una eventuale maggiore disponibilità di prodotti meno selezionati, rivolti a un mercato più ampio, ma anche meno remunerativo. Con buona pace di chi piange – anche in Sardegna – la morte del “made in Italy”, minacciato dalle importazioni senza filtri daziari (a proposito di olio tunisino, in questo caso).
Abbiamo altre realtà analoghe a quella di Surigheddu e Mamuntanas. Esistono migliaia di ettari a vocazione agricola immediatamente o quasi immediatamente utilizzabili che giacciono abbandonati. Senza contare la disarticolazione endemica dell’intero settore, con aziende indebitate, a volte troppo piccole, quasi sempre mal collegate in rete, con difficoltà ad accedere alla grande distribuzione e ai canali commerciali più remunerativi, e in più male assistite dagli enti regionali dedicati al settore.
Possiamo allargare il discorso a tutta la produzione alimentare. Un esempio clamoroso è rappresentato dalla mancata valorizzazione delle potenzialità di cui disponiamo in mercati interessanti ma ignorati (come quello della mitilicoltura e dell’ostricoltura, ad esempio). Naturalmente occorrono studio e innovazioni. Ma in Sardegna non mancano le scuole di settore e i corsi universitari e sarebbe ora di restituire a queste agenzie formative non solo la loro giusta importanza, ma anche una connessione vera, concreta, con il mondo della produzione.
La questione di fondo non è la scelta del momento sulla partita specifica. Le scelte possono essere indovinate oppure no: entrano sempre in gioco diversi fattori, non tutti ponderabili. Ma prima di questo c’è una visione di prospettiva, c’è un’idea generale, una strategia che andrebbero proposte e messe in pratica. Senza le quali sbagliare diventa automatico.
In Sardegna oggi è possibile proporre impunemente e con la più grande faccia tosta della galassia la coltivazione estensiva di cardi o canne a uso industriale, o accettare che migliaia di ettari agricoli finiscano sotto serre fotovoltaiche o impianti di pannelli termodinamici o di rotori eolici, o ancora concedere parti rilevanti di territori a vocazione agricola a progetti di trivellazione e di sfruttamento geotermico. Come se non ci fossero alternative migliori. Come se gli esiti del Piano di Rinascita non fossero drammaticamente istruttivi.
Qual è dunque la visione generale della nostra classe politica e di quella che oggi, nello specifico, guida la Regione sarda? E’ fondamentalmente una visione da classe dirigente postcoloniale, simile a quel che si può constatare, per esempio, nei paesi africani formalmente indipendenti ma tutt’oggi sotto tutela (penso alle ingerenze della Francia sulle sue ex colonie, per dire).
Le scelte che si fanno in Sardegna sono sempre e solo rivolte a garantire il nostro rapporto di dipendenza. Una giustificazione di questo fenomeno, che spesso emerge sia nei mass media sia nelle dichiarazioni degli esponenti politici, così come nelle chiacchiere da bar (o da social network), è che i sardi non sarebbero capaci di fare le cose e dunque sia necessario affidarsi al padrone forestiero di turno. Una visione radicata (pensiamo alla novella Il nostro padrone, di Grazia Deledda) e ormai interiorizzata da tanti.
A questo si aggiunge il mito della modernizzazione, anch’esso in realtà funzionale al mantenimento dell’isola in una condizione di dipendenza patologica. L’abbandono dell’agricoltura e lo stigma negativo sul settore dell’allevamento sono stati funzionali a farci accettare il modello industriale petrolchimico imposto di forza dal governo italiano. Un’accettazione le cui ragioni temo non siano così edificanti come ancora oggi cercano di sostenere i protagonisti dell’epoca e chi ha, suo malgrado ovvero per colpa o dolo, un’idea subalterna della Sardegna.
L’abbandono dell’agricoltura e della produzione agroalimentare come uno dei settori trainanti della nostra economia è stato un errore per niente spontaneo e nemmeno tanto inconsapevole. I rischi erano ben chiari e ben presenti già nel vasto dibattito sulla Rinascita del secondo dopoguerra e per tutti gli anni Sessanta del secolo scorso.
In definitiva, se non ci liberiamo della nostra percezione autocolonizzata di noi stessi non riusciremo mai a trarre qualcosa di buono dalle nostre risorse. E questo non dipende da una nostra atavica condanna alla povertà o a chissà quali mancanze insuperabili.
Come scriveva Giovanni Maria Angioy nel suo Memoriale, se la Sardegna, pur così male amministrata, pur in presenza di problemi strutturali di lungo corso e in una condizione di dipendenza così penosa, riesce comunque a mostrare potenzialità notevoli e persino a proporre nonostante tutto produzioni di valore, significa che, ben amministrata, potrebbe essere una delle terre più prospere dell’Europa e del Mediterraneo. Era vero nel 1799, non è meno vero oggi.
Il problema dunque è profondamente politico, ma è anche culturale. Non si possono scindere questi ambiti. Non tenerne conto ci espone in modo sempre più pericoloso e con sempre più ridotti margini di manovra a esiti storici drammatici, di cui le difficoltà che stiamo vivendo oggi sono solo una mera anticipazione.
Poi, che requisiti bisogna avere per accedere a quei terreni. Sembrano fatti apposta per escluedere i sardi!