Viene evocata la possibilità che la Sardegna sia esclusa dalle potenziali destinazioni del deposito unico nazionale italiano delle scorie nucleari. Le ragioni sarebbero di natura pratica ed economica, non si tratta certo di un cedimento alla volontà popolare dei sardi. Ma tant’è.
Una buona notizia? Non sia mai! Su cosa si concentrano i commenti di molti sostenitori o fiancheggiatori del sistema di potere vigente sull’isola? Sul fatto che questa possibilità (non ancora una certezza, dunque) sia un problema “per gli indipendentisti”. Cos’è, una sindrome? O non è forse un tipico sintomo di autocolonizzazione?
Se la Sardegna sarà risparmiata dalle scorie nucleari intaliane è un problema per i fantomatici indipendentisti o una buona notizia per tutti i sardi? E se una delle tante battaglie portate avanti dell’indipendentismo dovesse avere un esito favorevole, perché mai proprio gli indipendentisti ne sarebbero le vittime? Forse perché, venuta meno questa, non ci sarebbero altre battaglie, altre vertenze, altre ragioni da sostenere? O perché è comunque fondamentale, qualsiasi cosa accada, non delegittimare gli assetti socio-economici e di potere oggi imperanti?
In realtà, quest’ultima sembra l’unica, vera preoccupazione di chi usa “gli indipendentisti” come facile arma di distrazione, come bersaglio di comodo da usare per tutte le necessità.
Purtroppo per noi, però, ridicolizzare gli indipendentisti (che a volte onestamente se lo meritano pure, almeno alcuni) non sposta di una virgola la gravità della nostra condizione storica. Rifiutare di ammettere, anche solo in via teorica, la possibilità di conquistarci una soggettività politica collettiva, in quanto sardi, spinge i discorsi in vicoli ciechi da cui poi si fa fatica ad uscire, se non a prezzo di contorcimenti retorici e di botte di affermazioni apodittiche del tutto indimostrate.
(Spesso sono asserzioni oggettivamente ridicole, tipo queste: “io sono a favore della Sardegna, ma a patto di non mettere in discussione gli assetti costituzionali italiani”, “io sono sardo, sì, ma anche italiano, europeo, ecc.”; “al giorno d’oggi aspirare all’indipendenza è un anacronismo”; “in fondo è molto di più quello che l’Italia da alla Sardegna di quello che prende”; “la Sardegna è sempre stata dominata e siamo pocos, locos y mal unidos, se abbandonati a noi stessi non abbiamo scampo”, e via delirando).
Ma per capire bene di cosa si tratta basta guardare il penoso balbettio che la nostra politica istituzionale, mal sostenuta da un’intellettualità organica mai così silente, mai tanto allineata e coperta, dimostra nella vertenza sulle servitù militari. Una sceneggiata oscena, davvero vergognosa.
Ma di problemi ce n’è ben più di quanti sia possibile elencarne qui, su due piedi, lo sappiamo. Così come sono sempre tante, forti e profonde le argomentazioni contro il rapporto subalterno e dipendente della Sardegna dentro l’assetto giuridico-politico italiano (e prima ancora dentro l’assetto economico, sociale e culturale). Non le ripeterò, in questa circostanza.
Rimane in piedi la questione specifica da cui siamo partiti. Con tutta probabilità, se mai davvero la Sardegna sarà esentata dal dover sopportare, insieme alle altre, anche la servitù radioattiva italiana, pagheremo cara questa concessione. Da un lato verrà propagandata come un successo della politica istituzionale, e non certo delle mobilitazioni di massa degli ultimi dodici anni, tanto meno dei poveri indipendentisti: sarà cioè usata per rilegittimare l’apparato di rapporti di forza e di potere che ci sta ammazzando. Da un altro sarà usata come lasciapassare per altre porcherie, già in atto o in rampa di lancio.
Il vero fallimento della nostra sedicente classe dirigente sta proprio nel non riuscire neanche lontanamente a presentarsi come tale. A presentarsi cioè come un fattore di guida e di catalizzazione degli interessi di tutta la collettività storica dei sardi. Che, ricordiamolo per i più distratti, per ragioni obiettive di carattere geografico e storico, è in una situazione del tutto peculiare rispetto ad altre porzioni dello stato italiano. Cosa che troppo spesso si evita di mettere in cima a qualsiasi discorso su questi temi.
La nostra sedicente classe dirigente è in realtà una sorta di classe dominante in conto terzi, come sappiamo. Perciò non riesce proprio, nemmeno con i suoi esponenti più lucidi o meno impresentabili, a dissimulare il proprio profondo odio per qualsiasi discorso emancipativo in senso economico, sociale, culturale e politico. È l’istinto della sopravvivenza bruta, ferina, che prevale persino sulla necessità di salvare le apparenze.
Quel che la urta e la preoccupa non è che lo stato italiano possa usare la Sardegna come propria pattumiera nucleare, né che vi si possano tenere mega-esercitazioni militari devastanti in senso concreto e in senso morale, e nemmeno che la Sardegna sia palesemente costretta in una condizione di inferiorità del tutto artificiosa e indotta, a puro scopo di sottomissione. Tutto ciò è ampiamente giustificato, soprattutto facendo affidamente sul nostro mito identitario ultratossico e all’occorrenza scegliendosi una controparte di comodo, o generandola addirittura al proprio interno (le varie forme di sardismo diffuso, il sovranismo, alcune espressioni di nazionalismo nostalgico).
Quello che preoccupa chi detiene posizioni sociali e politiche di vantaggio sull’isola è che si creino le condizioni storiche per una perdita di tali privilegi ingiustificati. Solo questo. Ecco perché ogni minimo barlume di successo di qualche mobilitazione popolare, fuori dagli schemi imposti dai partiti italiani, viene tendenzialmente sminuito, ridimensionato oppure, al peggio, rivendicato come proprio.
A maggior ragione, nel campo avverso, resta fondamentale coniugare le istanze astratte di edificazione di un nuovo ordinamento giuridico statale con quelle, concrete e urgenti, di emancipazione economica e sociale, con la battaglia per i diritti, per i beni comuni, per l’eguaglianza. E legarla alle analoghe battaglie in corso in Europa e nel Mediterraneo, dalla penisola iberica, alla Turchia.
Non c’è da stare tranquilli. I primi custodi dello status quo stanno in Sardegna, non a Roma, e sono quelli che dovrebbero interloquire con lo stato italiano. A vantaggio della Sardegna, in teoria. In pratica, a vantaggio del sistema di potere che li legittima e li ha selezionati. Spero che ci penseremo, se e quando riceveremo la rassicurazione definitiva circa lo stoccaggio delle scorie nucleari italiane. Confido che non ci faremo imbrogliare come idioti per l’ennesima volta.
Caro Omar, mi sono lanciato in un lungo commento in difesa di quella che mi stava sembrando tu avessi bollato come asserzione ridicola, “io sono sardo, sì, ma anche italiano” (asserzione nella quale posso tranquillamente riconoscermi, in compagnia, ritengo, della maggioranza dei sardi, chi più consapevole chi meno). Poi, però, ho creduto di capire che tu non intendessi l’asserzione in sé ridicola, ma solo in quanto addotta a motivare un rifiuto ad ammettere, anche solo in via teorica, la possibilità di conquistarci una soggettività politica collettiva in quanto sardi. Cioè, cambiando l’ordine dei fattori, se chi ammettesse questa possibilità teorica asserisse anche di sentirsi sardo e italiano, allora non troveresti l’asserzione ridicola, perché in sé, appunto, non lo sarebbe. Questo significherebbe, però, che una soggettività politica in quanto sardi non contraddirebbe un’appartenenza anche italiana, e qui le cose forse si complicano, per cui aspetto la tua interpretazione autentica.
Se risulterà che alla fine l’ho capita bene ci eviteremo la pubblicazione di un pistolotto (il mio) allora perfettamente inutile (ma forse, come ogni nostro sforzo, inutile in ogni caso).
Hai colto bene il senso della mia obiezione. La ridicolaggine, o la debolezza logica, sta proprio nell’addurre una appartenenza, una identificazione soggettiva (io mi sento sardo ma anche italiano), come argomentazione contro il percorso di autodeterminazione della Sardegna. Tuttavia – se vogliamo essere lineari e coerenti – seguendo lo stesso ragionamento non si può sostenere che il sentirsi (culturalmente? storicamente?) anche italiani minerebbe la possibilità di conquistare o di pretendere una soggettività politica “in quanto sardi”.
I due aspetti stanno su piani diversi. La necessità storica della nostra autodeterminazione a mio avviso non discende da questioni meramente identitarie (come invece sostiene chi professa un’idea nazionalista pura, o etnica, della questione). Secondo me questo aspetto è molto in secondo piano rispetto a fattori materiali e strutturali decisamente più stringenti. Fattori economici, sociali e politici che hanno un peso concreto maggiore dei soli fattori puramente culturali. Che esistono e non si possono rimuovere, beninteso.
Naturalmente questa mia posizione anti-essenzialista mi pone in contrasto con una buona parte dell’ambito cosiddetto indipendentista (ma anche con molti nazionalisti non indipendentisti e buona parte del sardismo; che vi sia in queste posizioni una contraddizione interna, non è un problema mio 🙂 ). Ma così la vedo io. Probabilmente è una questione di fondamenti teorici. Del resto non ho mai nascosto il mio debito verso il marxismo, Gramsci, strutturalismo e poststrutturalismo. 🙂