Provo a tirare le somme della discussione sull’indipendentismo svolta nei giorni scorsi qui e in altre sedi (a cui aggiungo questo pezzo di Angelo Morittu). Come pro memoria e come eventuale spunto per ulteriori ragionamenti e soprattutto, se possibile, per contribuire ad aprire uno scenario pragmatico nuovo.
Va detto che il solo fatto di parlarne, e di parlarne con quei toni e quegli argomenti, ha suscitato qualche fastidio. In alcuni proprio per il fatto che si sia rianimato il dibattito sul tema.
L’impressione è che, negli ultimi due anni, si sia coagulata una certa reazione anti-autodeterminazione, facilitata dall’avvento della giunta “dei professori” e dalla conseguente normalizzazione intellettuale in atto. Sono riemerse argomentazioni capziose, già sentite fino alla nausea almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso, contrarie anche alla sola ipotesi dell’indipendenza, ostili verso qualsiasi tipo di discorso emancipativo, sia pure non ideologico o settario.
Lo scambio di idee e ragionamenti non ha avuto spazio ne eco nei mass media mainstream e nemmeno presso le succursali sarde dei partiti italiani, i loro fiancheggiatori e i loro intellettuali organici. Non è sorprendente, beninteso, e dovrebbe essere uno stimolo a ragionarci su. Lo riporto dunque come dato significativo.
Bisogna dire che anche alcuni indipendentisti hanno dato segni di fastidio e/o diffidenza. In modo abbastanza inspiegabile, dato che non si trattava né di voler dettare la linea a chicchessia, né di voler dire l’ultima parola su alcunché. Ma forse in questo caso si tratta del sintomo di un problema (a cui accennerò più sotto).
Naturalmente, in ambito indipendentista, vanno fatti i conti con l’accumulo di risentimenti e diffidenze di questi anni. Fare politica non è mai facile, farlo in termini di puro volontariato, senza finanziamenti, contro un sistema di potere non solo politico, ma anche culturale e economico come quello sardo (a sua volta ben appoggiato ad assetti di potere esterni), promuovendo un processo di mutamento radicale (nell’orizzonte di riferimento, negli obiettivi, nei riferimenti culturali) è un’impresa che potrebbe apparire folle. Una follia non sempre lucida, come ci piacerebbe credere, ma se non altro generosa. Inevitabile incorrere in incidenti di percorso, carenze organizzative, impasse pragmatiche, scelte sbagliate. In una situazione simile, il tasso di “scazzo” e di attriti personali è ovviamente alto, non essendo frenato dal mutuo interesse a non rompere il giocattolo, a non scardinare il sistema a cui si partecipa, come è invece per i partiti italiani in Sardegna e i loro satelliti locali.
Tenuto conto di quanto precede e fattane dunque la tara, riporto di seguito, per punti, quel che mi sembra emergere dalle diverse riflessioni. Naturalmente, si tratta di un punto di vista soggettivo, come tale opinabile.
- Ci troviamo in un momento di passaggio, in cui gli schemi consolidati dell’organizzazione, dell’azione e della comunicazione indipendentista mostrano la corda. I motivi possono essere diversi, non tutti riconducibili a limiti intrinseci all’ambito indipendentista medesimo. Ammettere questo problema non significa affatto dover rinnegare il passato o cercare colpe da affibbiare a qualcuno. Il passato non si rinnega né si ignora. E non si deve buttare via nulla di quanto maturato ed elaborato negli anni, né come esperienze personali, né come acquisizioni politiche raggiunte, anche per andare oltre, se è il caso.
- La consapevolezza della natura critica di questo momento non è generalizzata, però emergono tentativi di analisi e di bilancio sia tra gli indipendentisti propriamente detti sia tra coloro che si trovano in una posizione politica attigua, spesso dialogante o addirittura cooperante con loro. Tale consapevolezza va coltivata e problematizzata, senza eccedere in autoanalisi fini a se stesse e in discorsi autoreferenziali. L’apertura e il dialogo sono indispensabili, ma non solo e non tanto tra indipendentisti conclamati, non più.
- Le questioni sollevate dall’indipendentismo nel corso degli anni sono ormai entrate nell’agenda politica mainstream e istituzionale e pervadono il dibattito pubblico sardo, per quanto spesso si ignori che si tratta appunto di questioni aperte dall’indipendentismo e dal sardismo storico (basti pensare alla vertenza entrate, alla questione dei trasporti, alla questione linguistica, alle servitù militari, alla subalternità energetica e produttiva, ai problemi del settore agroalimentare, ecc. ecc.). Occorre prenderne atto con generosità e coraggio e non continuare a discuterne in termini settari o peggio a forza di slogan. Serve un salto di qualità nella conoscenza dei problemi e nell’approccio critico e pragmatico ad essi.
- Al contrario di quanto sostengono alcuni detrattori, lo scopo degli indipendentisti, nei loro diversi percorsi, non è mai stato davvero quello di voler conquistare il potere in Sardegna. Il fatto di non aver ancora mai governato la Sardegna non può dunque essere usato come argomento contrario al percorso indipendentista (sembra ovvio, ma bisogna ribadirlo: è un’obiezione capziosa, un sofisma fallace). Solo di recente è emersa tale potenzialità e solo in parte la si è colta (per esempio a livello locale). Questo è un altro salto di qualità da fare: rinunciare alla pura testimonianza ideale (o lasciarla a certe forme di elaborazione e di azione comunicativa) e avviarsi verso una maturazione politica convincente non solo per lo stretto giro dei militanti e dei simpatizzanti, ma per un numero consistente di cittadini sardi.
- Il che diventa complicato, nel momento in cui la militanza di base dell’indipendentismo è rimasta invece per lo più ancorata a forme organizzative e a un tipo di impegno politico quasi esclusivamente movimentista, oppositivo, di contrasto ma non di governo, povero di argomentazioni solide, più interessata a conservare il proprio angolo di comfort che a cimentarsi con le complicazioni della realtà. La scorciatoia opportunista del sovranismo in salsa sarda non è tuttavia una risposta accettabile, nel nostro scenario attuale e tanto meno in prospettiva, perché è solo una soluzione vantaggiosa per qualche leader, in termini di potere personale e di spazi di negoziazione, ma non muta i rapporti di forza con le organizzazioni politiche italiane, anzi li conferma.
- Un nuovo percorso di autodeterminazione della Sardegna deve porsi come obiettivo – sembrerà tautologico, ma evidentemente non lo è – proprio l’autodeterminazione, nei suoi vari aspetti pratici (economici, sociali, culturali), ossia le forme concrete di esercizio della nostra soggettività storica e della nostra emancipazione collettiva, a prescindere dalla veste formale, giuridica, che queste potranno assumere. A partire dalle nostre comunità, dalle relazioni sociali, dalle formazioni intermedie, ecc. Ovviamente, in questo momento, l’unica forma di soggettività giuridica e politica collettiva ammessa nel diritto internazionale è l’ordinamento statuale. Ma ottenere questo deve essere un obiettivo finale, non la premessa ideologica necessaria e l’unico paradigma sul tappeto. Ora come ora la battaglia da condurre riguarda le soluzioni concrete, a partire dall’ordinamento vigente, per assicurare alla Sardegna il controllo o quanto meno una vera voce in capitolo sulle partite strategiche che la riguardano.
- Su questa strada gli indipendentisti propriamente detti sono in buona compagnia, dato che esiste una fascia di popolazione, di varia estrazione ma prevalentemente di classe media, sensibile a questi temi e pronta a mobilitarsi all’occorrenza, a patto che l’indipendenza non sia il primo punto all’ordine del giorno, ma l’esito di una serie di passaggi e di conquiste ad essa preliminari e necessariamente propedeutiche. (E da qui si torna ai punti 3 e 4.)
- L’articolazione interna e le dinamiche in corso nella società sarda contemporanea (ma non solo in quella sarda) non sembrano favorire le organizzazioni politiche rigide e gerarchiche, tanto meno qualora siano basate su fondamenti teorici normativi e prescrittivi, animate dal tentativo di costringere la realtà e la sua complessità dentro schemi astratti, dogmaticamente rigidi. Bisogna studiare di più e meglio, tenere presenti le lezioni della storia (gli studi postcoloniali offrono molto materiale, per esempio), sfruttare il grande bacino di competenze e relazioni rappresentato dalla nostra diaspora, specie da quella recente, più giovane, preparata e attiva.
- Uno dei problemi con cui deve fare i conti l’indipendentismo sardo è la scarsa presa delle sue istanze sui ceti sociali concreti, sugli ambiti lavorativi ed esistenziali di cui si compone la collettività storica genericamente denominabile “i sardi”. L’indipendentismo non è riuscito a fare presa nel mondo del lavoro dipendente, nemmeno in presenza della crisi conclamata del settore industriale, non lo ha fatto nel settore del commercio e delle “partite IVA”, non nell’ambito agricolo e zootecnico, non nel settore turistico e nemmeno in quello della cultura. Eppure si tratta di ambiti che per vocazione e per interesse avrebbero ormai potuto maturare una visione più emancipata e più disponibile verso soluzioni alternative rispetto alla fallimentare conduzione dei partiti italiani e delle loro emanazioni locali e dimostrano spesso una mal celata ostilità, di varia natura, verso gli apparati burocratici, fiscali e repressivi dello stato centrale. È un grave errore abbandonare queste istanze al poujadismo dei vari movimenti di categoria o al M5S (la cui presa e la cui consistenza in Sardegna sono deboli, al di là dell’exploit elettorale alle ultime politiche). Certo, la ramificata e pervasiva rete clientelare, la funzione di intermediazione tra il potere e il mondo del lavoro svolta dai sindacati (in termini assistenzialistici e conservatori), la debolezza dell’intero sistema economico sardo non hanno favorito una crescita politica e una capacità di agire più libera in nessuno di questi ambiti sociali. Nondimeno, l’indipendentismo organizzato e militante ha qualche domanda da farsi, su questo punto.
- Il tema dell’autodeterminazione, inevitabilmente legato a quello della nostra emancipazione collettiva, è un tema forte e decisivo, per quanto rifiutato e in certi casi ancora dileggiato da chi si sente garantito dallo status quo o da chi spera di essere cooptato in qualche cerchia privilegiata. Non può essere appannaggio di pochi e non può essere costretto nelle strettoie delle discussioni tra indipendentisti militanti o tra dirigenze dei piccoli partiti indipendentisti residui. La sua forza deve essere compresa prima di tutto dagli indipendentisti, dunque, e la sua portata spiegata nei dovuti modi, presentata in tutta la sua complessità. Il tentativo di fare dell’indipendentismo una forma di ideologia autosufficiente, pura, non ha dato buoni frutti. La semplice pretesa di fondare uno stato sovrano, che è un’operazione giuridica e politica, per altro non realizzabile per via di mera volontà di chi la propone, non è una base valoriale e teorica sufficiente. Tanto meno esiste una sorta di condizione antropologica distintiva (gli “indipendentisti” come categoria umana riconoscibile e circoscrivibile non esistono).
- L’indipendentismo deve articolarsi secondo le linee di faglia sociali e culturali realmente esistenti, deve declinarsi nei termini in cui si declinano i conflitti inevitabili dentro ogni società umana, non deve rifiutare le grandi categorie politiche universali (come destra e sinistra), così come deve cercare riscontri e termini di paragone non solo nelle vicissitudini delle altre nazioni senza stato, ma in ogni circostanza e snodo storico in cui siano in gioco le sorti delle diverse collettività umane, i diritti, le libertà civili, le conquiste sociali, ecc., quanto meno in ambito europeo e mediterraneo.
- Dobbiamo tenere conto, di conseguenza, di ciò che ci succede tutt’attorno. Dei problemi macroscopici del nostro tempo, dalle migrazioni di massa, alle guerre in corso o in fase di preparazione, del conflitto sempre più esasperato per le risorse, della crescente diseguaglianza economica e sociale, dei mutamenti climatici, della crisi dei paradigmi novecenteschi ed eurocentrici (in senso lato, ricomprendendovi anche quelli espressi dalla classe dominante statunitense).
- Ciò vuol dire dunque anche fare i conti con le pulsioni nazionaliste, xenofobe, retrive e violente apertamente emerse sulla scena europea; e col rischio che un percorso verso l’indipendenza nazionale della Sardegna possa rivelarsi una forma di rivoluzione passiva, un cambiare tutto per non cambiare nulla, strumento di comodo in mano a gruppi di potere tutt’altro che interessati alla nostra emancipazione economica, sociale e culturale.
- Lo sforzo da farsi ora è di tipo molteplice. C’è un lato pragmatico/organizzativo, c’è un lato teorico/culturale, c’è un lato comunicativo. C’è anche la necessità precisa di entrare nei problemi aperti, nelle vertenze in corso, senza pretendere di egemonizzarle e di incanalarle per forza in cornici astratte. E c’è la possibilità – come già avviene – di concorrere, in varia forma, all’amministrazione dei nostri centri locali (possibilmente offrendo esempi più edificanti di quelli offerti da troppi amministratori legati mani e piedi a consorterie, gruppi di pressione e capibastone dei partiti maggiori).
- Da fare ce n’è per tutti, insomma. Certamente l’indipendenza, l’autodeterminazione e prima di tutto l’obiettivo storico fondamentale, ossia una condizione di vita più dignitosa e libera per i sardi, non si conquistano a parole. Ma senza parole non si conquistano. Teniamone conto. Tanto per ciascuno parlano le sue azioni. Non ci vuole tanta dietrologia, in Sardegna, per pesare le persone e le loro motivazioni.
Naturalmente le considerazioni possibili su questo tema non si esauriscono qui e chiunque legga quelle che ho testé esposto può serenamente contestarle o aggiungerne delle altre. Ma mi pare che questo sia emerso dalle riflessioni svolte nei giorni scorsi. Naturalmente, questa non è l’ultima parola su questa faccenda. Almeno, me lo auguro. In attesa di seguire le elezioni in Catalogna (possibilmente senza farne un feticcio, in un senso o nell’altro), per ora questo è quanto.
[Sono stati prodotti altri interventi in ordine ai temi esposti nella discussione uscita qui su SardegnaMondo e su Sardegnasoprattutto: sul sito di Sa Natzione (l’unico che abbia fatto riferimento alla discussione in corso), sul blog di Paolo Maninchedda e su quello di Roberto Bolognesi. Lo segnalo in modo da fornire dei termini di paragone con il dibattito svoltosi qui e ulteriori, possibili spunti di riflessione.]