Il dibattito su indipendenza e indipendentismo prosegue. Questa volta ospito una riflessione di Stefano Puddu Crespellani, preziosa anche in quanto proveniente da una prospettiva esterna al contesto sardo (oltre che alla militanza indipendentista propriamente detta).
Gli articoli di Alessandro Mongili e di Nicoló Migheli apparsi di recente sul sito di Sardegna Soprattutto sono stati due utili sferzate per uno scambio di idee sui limiti e sulle potenzialità della proposta indipendentista in Sardegna. Le successive riflessioni di Omar Onnis, Ivo Murgia e Pier Franco Devias apparse qui su SardegnaMondo, e le altre che verranno, arricchiscono ulteriormente il dibattito e danno una misura dell’interesse che suscita il tema e dello spessore degli argomenti di cui è intessuto. Pur con il rammarico di non essere capace di scrivere questo intervento in lingua sarda (magari potrò tra qualche anno) vorrei aggiungere qualche considerazione in proposito, dalla posizione eccentrica nella quale mi trovo (vivo in Catalogna da 25 anni).
Devo premettere che il mio percorso politico non viene dall’indipendentismo. Ho partecipato piuttosto alle successive ondate dei movimenti sociali degli anni ’80, di sensibilità ecopacifista (ma non solo), quando si vivevano gli ultimi sussulti della guerra fredda e le prime vampate dell’economicismo rampante che ha fatto terra bruciata ovunque, da una quarantina d’anni in qua. Appartengo cioè a una generazione che in tutti questi anni di pensiero unico ha saputo mantenere, magari sottovoce, il basso continuo di un dissenso nei confronti del “modello”, e che oggi vede con chiarezza la continuità tra le preoccupazioni di allora e l’ampiezza della crisi sistemica attuale, che trafigge la realtà in tutti i suoi livelli, dall’economico all’epistemico, passando per l’ecologico e, ovviamente, il democratico.
Una sintesi di tutto questo l’abbiamo vista manifestarsi qualche anno fa con gli “indignados”, un movimento composito, trasversale e intergenerazionale che portava sulla scena politica la nuova versione del conflitto di classe: quello tra l’1% che controlla le risorse e le leve del potere e il 99% che lo subisce. Sono semplificazioni, certo, ma danno una idea di come lo scenario si è modificato. Nella vicenda degli “indignados” (“indignats”, in Catalogna) ho ritrovato molte delle rivendicazioni e delle pratiche conosciute e sperimentate nei movimenti sociali di trent’anni prima: il recupero della partecipazione diretta, la sperimentazione di nuove forme di presenza e di espressione politica, basate sull’organizzazione in rete, la ricerca di meccanismi di diffusione della leadership, tanto per citarne alcuni. La semina di quegli anni può germinare oggi in forme nuove, più adatte ai bisogni del presente, ed è giusto e bello che sia così. Tuttavia, riconosco di non essere cresciuto con l’idea che l’indipendenza della Sardegna fosse una priorità nella mia vita. Piuttosto dovrei dire l’opposto: chi ne parlava mi sembrava, per dirlo in poche parole, fuori dal mondo. Cos’è cambiato, dunque, per me in questi anni?
Il mio avvicinamento all’ipotesi di un “indipendentismo possibile” è avvenuto su due versanti: il primo è quello della riflessione ecologica, il secondo la mia esperienza di integrazione e appartenenza alla comunità catalana. Sul piano ecologico, l’insularità è un fattore cruciale, al limite dell’ovvio, di individuazione di un territorio e del suo metabolismo. In un caso come quello sardo, sarebbe un imperativo ecologico, per così dire, quello di amministrare le proprie risorse e farle bastare. In altre parole, essere sostenibili vuol dire fare in modo che l’impronta ecologica della Sardegna non vada oltre il suo territorio e i mari che la circondano — né, d’altra parte, che territori esterni vogliano riversare su di noi gli squilibri del loro metabolismo. Quando si parla di sovranità energetica, idrica, alimentare, e via discorrendo, ci riferiamo non a dei pii desideri ma a necessità fondamentali, che la nostra Isola deve ancora risolvere in chiave di autogoverno e di non-dipendenza.
Per altro verso, seguire gli ultimi 25 anni di storia catalana mi ha aperto uno spaccato interessantissimo della complessità implicita in un processo di emancipazione nazionale, che nel caso catalano è giunto oggi a un grado di maturazione tra i più alti che si conoscano in Europa. In questo paese ho respirato il senso della “normalità” di una appartenenza aperta, che certamente ha nella lingua un perno essenziale, ma che si basa su un menú di valori estremamente ricco — che sarebbe qui lungo elencare. La società catalana viene da lontano, ha costruito nei secoli una complessa architettura di prosperità economica che è anche culturale e associativa, e ha mantenuto la propria volontà collettiva attraverso tappe dolorosissime della propria storia recente. Viverci dentro, diventarne in qualche modo cittadino, mi ha permesso di capire le ragioni profonde di una richiesta di autogoverno che oggi viene anzitutto dalla base sociale, e che pretende una trasformazione dei criteri di gestione politica a favore della maggioranza della popolazione, e in particolare di quella più vulnerabile. Tuttavia, è stato anche istruttivo vedere fino a quale estremo di durezza possa giungere la reazione delle forze oppositrici, politiche e amministrative, per non parlare dei mezzi d’informazione, davanti alla “trasgressione” che rappresenta qualunque rivendicazione di indipendenza davanti alla “sacra unità” dello stato. Fra una settimana, com’è risaputo, ci saranno elezioni al parlamento catalano, il cui voto dovrà dirimere quali reali equilibri di forza esistono tra gli elettori, a favore o contro. Sarà un nuovo passaggio da seguire con attenzione, insieme ai passi successivi, improntati fin d’ora a una tensione estrema tra forze contrapposte, in un contesto che non è stato capace di dialogare sugli snodi essenziali dell’autogoverno. Questa resistenza politica del sistema è stata anche la ragione per la quale, in Catalogna, si è dovuto e voluto cominciare a “ridiscutere tutto”, cioè andare al fondo delle questioni relative al modello di società che l’eventuale nuovo stato vorrebbe costruire. Anche questo mi sembra uno snodo essenziale per ciò che riguarda il nostro tema, e cioè la Sardegna.
La conclusione provvisoria è la seguente: l’autodeterminazione, l’autogoverno, l’indipendenza della Sardegna hanno senso politico non solo in quanto sono il legittimo diritto di ogni popolo, ma soprattutto perché rendono più facile (o meno difficile) il compito essenziale di trasformare il modello economico e politico in cui ci troviamo —la cui derivata sociale è ormai prossima all’asfissia. Se l’indipendenza può aiutarci a riportare l’economia in una reale orbita di compatibilità ecologica, se può rappresentare un varco di uscita dalla dittatura finanziaria globalizzata che svuota di significato la democrazia, se ci permette di ripensare il modo di riequilibrare i comparti economici, il lavoro, il reddito, il territorio, allora certamente questo progetto mi interessa.
L’indipendenza, insomma, può essere una nuova cornice per fare scelte su questioni che, finora, restavano fuori dalla scelta. Per esempio, sulle servitù militari. Per esempio, sui grandi complessi industriali inquinanti. Per esempio, sulla rete energetica. C’è un gran bisogno di sperimentare dei modelli di convivenza alternativi alla ferocia patinata del capitalismo neoliberale. Per tutto questo, penso che la Sardegna vive oggi, rispetto alla variabile indipendentista, una fase di transizione, tra la fine di una tappa chiamiamola utopica, di testimonianza, quasi sempre a guida carismatica e, per ciò stesso, tendente alla frammentazione, che ha avuto però l’enorme merito di rompere la barriera percettiva che tagliava fuori l’indipendenza dalla versione dominante del “realismo politico”; e l’inizio di una tappa nuova, appena inaugurata, di indipendentismo chiamiamolo possibilista, e direi anche poietico, cioè costruttivo, creativo, disposto a cimentarsi con la realtà, insomma strategico.
Considero che questa tappa è stata inaugurata nelle passate elezioni regionali del 2013 da Sardegna Possibile, e il modo con cui saremo capaci di analizzarne il risultato e di raccoglierne il lascito sarà essenziale per la sua evoluzione nei prossimi anni. Aver portato l’indipendentismo sardo nell’orizzonte della realtà implica, tra le altre cose, poter misurare la distanza tra questa prospettiva futura e lo scenario attuale. Sapere a che punto siamo è il primo passo per riformulare il progetto, l’analisi su necessità e risorse, i metodi, i principi, ecc., cercando degli obbiettivi temporali concreti, fattibili, non velleitari, a breve e a medio termine. Governarsi da soli implica insomma il raggiungimento di traguardi intermedi, la capacità di fornire una serie di prestazioni dalle quali siamo ancora piuttosto lontani.
Per questo concordo con Ivo Murgia quando dice che occorre una dose di umiltà altissima per impegnarsi in questo progetto. Umiltà, determinazione, competenza, allegria e capacità di lavorare insieme. Dobbiamo sovvertire le nostre proprie (presunte) regole di relazione, se è vero quel che siamo abituati a sentire, che i sardi sono invidiosi, individualisti, rissosi e intrattabili. Sviluppare una politica di stato richiede aperture di ogni tipo, e il coinvolgimento di tutte le intelligenze possibili, in Sardegna o nel cosiddetto “disterru”. Richiede generosità e onestà intellettuale senza fine. Tutto il contrario di quel che, in generale, ha offerto finora la classe politica “digerente” sarda.
Quindi, a mio avviso, pensare a un pieno autogoverno della Sardegna è politicamente significativo se questa ipotesi è piena anche di contenuti concreti: relativi al nodo del lavoro e del reddito (come suggeriva Alessandro Mongili), alla sostenibilità economica (che vuol dire, tra le altre cose, sfuggire al giogo della dittatura finanziaria globalizzata), alla compatibilità ecologica (cominciando dal territorio e dalla gestione dei “beni comuni”), all’investimento culturale (nel quale dovrà occupare un posto di rilievo lo snodo della lingua), e non ultimo alla bonifica democratica (a suo modo uno dei territori più inquinati dell’Isola).
Vedo la costruzione di questo progetto come un obbiettivo a 15-20 anni, che coinvolgerà diverse generazioni di sardi e per il quale, ovviamente, non valgono personalismi. Sarà il frutto di un lavoro di cooperazione paziente e generoso, o non sarà. E dovrà risultare attraente anche per quelle intelligenze oneste e coinvolte nella realtà dell’isola che pure non considerano l’indipendenza, di per sè, come un proprio obbiettivo prioritario, ma che hanno perso peraltro ogni fiducia verso le ricette che vengono d’oltremare per risolvere i nostri problemi. Parlo dei famosi “non-dipendentisti”. Cercare di coinvolgerli in una proposta nuova, pienamente politica, di costruzione dell’autogoverno è stata la grande intuizione di Sardegna Possibile, a mio parere il maggiore esperimento di innovazione politica che la Sardegna abbia vissuto negli ultimi trent’anni (almeno), del quale mi sembra che Michela Murgia sia stata una straordinaria ispiratrice e interprete.
Parrebbe ora che questa esperienza sia stata bruciata in una stagione breve e intensissima, in gran misura a causa di una legge elettorale maramalda, promossa dalla paura e approvata dalla malafede di una classe politica incollata a poltrone e sistemi di potere da sottosviluppo. Sono state formulate numerose interpretazioni sul perché questa candidatura non ha raggiunto l’obbiettivo di entrare nel parlamento sardo, e qualcosa di vero c’è probabilmente in tutte; vale anche ricordare il tempo di gestazione eccessivamente breve di una proposta che non si limitava a un messaggio semplice, di natura populista, ma cercava di offrire un insieme di proposte articolato, non sempre facile da spiegare. Comunque sia, Sardegna Possibile ha ottenuto alla sua prima uscita un risultato politico non piccolo (oltre il 7%) e, quel che più conta, ha proposto una formula vincente di alleanza pratica tra percorsi personali e tradizioni politiche diversi, e una metodologia innovatrice, nella partecipazione e nelle proposte (lo studio di microprogetti, le “open space technology”, o il fatto di proporre in partenza la squadra di governo, un fatto inaudito nella politica italiana).
Questo bagaglio può e deve essere arricchito, ma in nessun caso deve andare perduto. Di più: quel che è necessario è riuscire a riproporlo dal basso. Sardegna Possibile deve rigermogliare nei territori, in modo diffuso, sulla base di pochi, chiari principi: basta con la gestione succursalista delle segreterie “locali” di partiti politici con sede a Roma, Genova o vattelapesca: possiamo essere aperti all’Europa senza passare per il loro filtro; partire dalle comunità concrete, per conoscere il territorio, le sue necessità e risorse; formarci senza sosta, imparare, scambiare informazioni, cooperare, crescere nell’intelligenza collettiva, per trovare soluzioni reali e se possibile innovative alle necessità di tutta la popolazione; pensare alla Sardegna come a un insieme, qualcosa che coltiva le sue diversità come un patrimonio comune, di cui tutti possiamo andarne orgogliosi, che è la base per poter pensare e progettare “politiche di stato”; riscoprire il senso di una prosperità antica, fatta di condivisione, di visione a lungo termine, di assenza di sprechi, di rinuncia a ostentare ciò che non possiamo permetterci; volontà di costruire una società senza esclusi, accogliente e allegra, ecologica, sana, matura, anzitutto politicamente, se volessimo provarci. Sono queste, se non altro, le sfide del tipo di indipendentismo nel quale mi sento coinvolto.
Stefano, il tuo articolo è veramente ben scritto, non meno a mio modesto avviso la motivazione prima del fallimento dei movimenti indipendentisti in Sardegna ha una sola parola: soldi.
A) La Sardegna, per la vulgata corrente, dipende dal “continente” da un punto di vista economico. La Catalogna/Scozia/prossimopaesechediventaindipendente no. Di questo i Sardi sono al 80% convinti. In molti anche tra gli indipendentisti “di pancia”, che poi sono la maggioranza. (soldi)
B) I partiti o liste indipendentiste non hanno mai avuto sostegni economici tali da poter ragionevolmente combattere ad armi pari con i partiti continentali. Nella società dei media questo è la base, e noi Sardi non sfuggiamo a questa logica. Il M5S ha ottenuto un successo sbandierato come “senza fondi” che però nella realtà nasce da una leva mediatica possente, il suo padre-padrone. (soldi)
C) In Sardegna non c’è il petrolio (Scozia) o una economia florida (Catalogna) o altro che possa far pensare ad un oggettivo miglioramento della situazione economica nel medio termine. Al contrario c’è una diffusa economia parassitaria di casse integrazioni pluridecennali che, staccandosi da Roma ladrona, sarebbe molto a rischio (soldi)
D) Il turismo non è vista come industria se non da chi ci lavora: per gli altri Sardi è un rompimento di scatole. Ergo, non è visto come una possibile fonte di ricchezza (soldi)
E) I Sardi non sono alla fame: e se anche lo fossero pochi oboli da oltre-tirreno metterebbero facilmente le cose a posto. Basterebbe prendere qualche tonnellata di scorie radiottive o una nuova centrale a carbone (come sta accadendo proprio in questi giorni) e magicamente sarebbe tirata su una nuova leva di operai aspiranti cassintegrati (soldi)
F) La lingua, l’identità, la cultura? Irrilevanti. La storia? E chi la studia più! 60 anni di piani per il mezzogiorno e maestri e professori campani o siciliani ci hanno più profondamente integrato alla penisola di quanto lo si voglia ammettere. I più accaniti indipendentisti? Per la metà stanno in continente o all’estero, da dove hanno una visione oggettiva di come vanno le cose. La realtà locale è assai più dopata dal finto benessere italico (soldi)
La mia speranza?
Sarò monotono e me ne scuserai. Ma sono i soldi. Come nella secessione americana, nella guerra d’Olanda, in quella che si sta sotterraneamente combattendo in Belgio (della quale gli indipendentisti nostrani curiosamente parlano poco) ci vuole il motivo economico. L’Irlanda? Erano nella miseria e l’Inghilterra combatteva una guerra mondiale. E poi c’erano motivi religiosi che qui evidentemente non sussistono
Insomma, date ai Sardi la convinzione che si starà enormemente meglio da soli, e che per quanto noi saremmo scarsi ad autogestirci ce la passeremmo alla grande …e l’indipendenza la si ottiene in 2 anni. Convinceteli che diventeranno come gli Svizzeri o meglio gli Arabi e accadrà l’inaspettato.
Andrea, ti ringrazio molto per i tuoi commenti. Provo a scrivere qualche nota di commento a caldo, pur con i limiti di una risposta non abbastanza meditata.
I soldi…: certo, sono un gran problema. Troppe cose, purtroppo, si basano su questo. Tra cui la politica. È giusto riportare le cose a questo livello di concretezza, per non sfuggire a un problema reale. Tuttavia, su questo piano, la povera gente come noi è battuta in partenza. Se è vero che con biglietti da 50 € si comprano i voti per continuare a spadroneggiare e favorire “le amicizie che contano”, e che oltre a questo non c’è niente, allora possiamo anche starcene a casa.
A mio parere, è giusto pensare che i soldi sono importanti. Per esempio, dobbiamo spremerci le meningi per pensare in che modo trovare forme di autofinanziamento che siano minimamente operative. Ma se basiamo tutto sui soldi, abbiamo perso in partenza. E abbiamo perso anche se aspettiamo qualche mecenate che ce li dia, per qualunque ragione imperscrutabile. Invece per me si tratta di pensare che i soldi non sono tutto. Che il denaro non è l’unica forma di ricchezza, l’unica cosa che ha valore per i sardi. E approfondire questo tipo di argomenti. Costruire attorno proposte politiche. Fare battaglie sui beni comuni, sulle forme di ricchezza materiale e anche immateriale che si possono valorizzare, far circolare, ridistribuire. Pensare anche forme di finanziare dei salari sociali attraverso una moneta complementare, per esempio. In un territorio con oltre il 50% di disoccupazione giovanile, bisogna cominciare a ridistribuire reddito per generare attività economiche. Forse anche pensare che la piena occupazione è ormai impossibile, ma che non è neppure pensabile parcheggiare tanta gente in modo indefinito. È da tempo che rifletto su questa idea e non mi è facile riassumerla in poche parole. Qui mi limito a indicare delle linee di ricerca. Anche il modo di gestire il gettito fiscale può cambiare. Attualmente, la nostra bilancia di pagamenti mi sembra veda un notevole saldo (almeno quello storico) a nostro favore. Si possono anche fare politiche attive per stimolare il ripopolamento delle zone interne: offrendo case vuote per affitti simbolici, incentivando alla stessa stregua la ripresa di attività artigianali, facilitando i collegamenti verso l’esterno (connessioni internet wifi nei piccoli centri, trasporti decenti…). E così via.
Il terreno su cui dobbiamo lavorare è quello politico, che in parte è anche quello culturale, sociale, economico. Sarà forse per il fatto che vivo fuori dalla Sardegna, fatto sta che credo ancora nella dignità dei sardi, se mai riuscissimo a proporre loro qualcosa di dignitoso. Siamo, per il momento, ancora poco rilevanti su quasi tutti i fronti. Tu citi quello della lingua. Io purtroppo non l’ho imparata da piccolo. Si tratterà di studiarla ora. La lingua da sola non è un argomento sufficiente per fare presa sull’elettorato, ma è un tema importante, cruciale, se riesce a combinarsi con altre proposte. È questo mosaico quello che si deve mettere insieme. Almeno per riuscire a capire quali e quante persone, in Sardegna, sono interessate a questa prospettiva, più che a una manciata di spiccioli da spendere in cose che non perdurano.
Io penso che la ricchezza, in Sardegna, forse l’abbiamo già. Il grande problema è che ce la prendono. Vedi quello che accade nel settore energetico. Allora il punto è che noi dobbiamo imparare a vederla, a trasformarla e a farla circolare tra noi; e che dobbiamo anche imparare a proteggerla, cioè a prendere da soli le decisioni che possono farla andare a nostro favore oppure no. Il terreno su cui possiamo lottare ancora per una eventuale egemonia è questo: la conoscenza della realtà e le decisioni da prendere.
Ma forse sono troppo idealista.