Lo sciopero generale di oggi assume un carattere altamente paradossale, se guardato dalla Sardegna, sia per ragioni che attengono allo sciopero in sé sia per ragioni di contesto.
È evidente che chiamare allo sciopero tutti i lavoratori solo dopo che le misure più ostili e problematiche sono state varate dal parlamento e dal governo di Roma non è esattamente una mossa intelligente. Sa un po’ di cerchiobbottismo furbesco: facciamo sfogare un po’ i lavoratori (che ne hanno ben donde), ma non intralciamo davvero le scelte governative. Altra cosa sarebbe stata chiamare alla mobilitazione prima che le misure peggiori fossero approvate, in modo da far pesare la volontà del mondo del lavoro, esercitando una pressione sulla sfera politica. Le commistioni quasi incestuose tra sindacati e governo hanno fatto propendere per questa soluzione cervellotica.
Ciò porta dritti dritti al primo nodo: se lo sciopero riuscirà, non avrà sostanzialmente alcun effetto pratico; se non riuscirà, darà al governo italiano il destro per proseguire serenamente sulla strada della normalizzazione reazionaria e classista che ne è la cifra politica.
A tale paradosso generale, nella situazione sarda se ne aggiungono altri, pesantissimi. Uno potrebbe essere questo: la marginalità delle vertenze sarde rispetto agli interessi difesi dai sindacati nel contesto dello stato italiano, pur esssendo la Sardegna la terra da cui partì la prima mobilitazione generale italiana, dopo i fatti di Buggerru del settembre 1904. Ma questo appunto suona un po’ recriminatorio, ingenuo, inutile. La questione sostanziale è un’altra.
Pur tenendo doverosamente conto della funzione fondamentale esercitata dai sindacati anche in Sardegna, è palese che il loro ruolo, nel corso dei decenni, ha avuto un peso prevalentemente di segno conservatore, di garanzia dello status quo. Nessuna scelta strategica sulle risorse e sulle strutture produttive e sociali della Sardegna, negli ultimi cinquant’anni, ha mai visto i sindacati italiani schierarsi concretamente a favore di un percorso di emancipazione sociale, culturale e politica dei sardi. La retorica del Piano di Rinascita industriale è stata da essi sposata in pieno e anzi propagandata massicciamente presso i lavoratori. La capillare opera di desardizzazione avvenuta nel secondo dopoguerra ha avuto nei sindacati uno degli agenti più incisivi.
Persino quando è stato evidente che le scelte di politica economica erano votate al fallimento e che i problemi macroscopici dell’isola dovevano essere affrontati dentro una cornice propria, i sindacati confederali hanno continuato a difendere lo status quo. Questo, quanto a impostazione complessiva. Sappiamo bene poi che di fatto, a livello di categoria e a livello locale, si sono anche trasformati in una sorta di centro di potere complementare, di intermediario clientelare. È un dato di fatto che prescinde dalla qualità etica dei singoli sindacalisti e anche dal senso delle singole vertenze affrontate negli anni.
I sindacati confederali sono stati un freno all’acquisizione da parte del mondo del lavoro sardo di una visione matura dei propri problemi. Hanno incentivato l’affidamento, di natura dipendentista e subalterna, a scelte esterne e a interessi lontani (ricordiamoci delle fantomatiche telefonate a Putin e altri consimili episodi), hanno impedito il radicarsi di una visione strategica e sistemica nell’ambito del lavoro dipendente. Hanno garantito pieno appoggio alla politica dipendentista, anche nelle sue forme meno presentabili.
Oggi come oggi i sindacati confederali in Sardegna si trovano su posizioni coincidenti con quelle della Confindustria, della SARAS, dell’ENI e di tutti i più grandi centri di interesse e di potere che vedono l’isola come un mero oggetto economico e politico. Sono favorevoli alle trivellazioni, sono favorevoli alle chimiche verdi, sono ostili a qualsiasi programma di riconversione produttiva delle aree industriali e militari. Il che va direttamente a detrimento delle possibilità di sopravvivenza dei loro stessi iscritti, delle potenzialità di rilancio economico a medio e lungo termine di intere aree dell’isola, della maturazione di modelli produttivi rispondenti alle risorse e alle caratteristiche demografiche, ambientali e culturali della Sardegna.
Nel settore pubblico, poi, i sindacati sono uno dei più forti fattori di dipendentismo diffuso. Pensiamo al mondo della scuola o a quello dell’impiego amministrativo. Anche qui è come se avesse definitivamente prevalso una sorta di infantilismo patologico, che fa sempre preferire l’apparente vantaggio immediato a qualsiasi conquista strutturale nel futuro. Probabilmente qualcosa sta cambiando, qualche segnale c’è. Vedremo presto di che portata sarà questo cambiamento e come si manifesterà.
A fare un bilancio oggi delle varie vertenze industriali aperte negli ultimi anni (a Portovesme, nel comparto minerario, a Ottana, a Porto Torres, a Villacidro) ci si ritrova davanti a un panorama di sconfitte. Sconfitte tanto più drammatiche in quanto nel frattempo non si è nemmeno cercato un piano B, un’opzione di riserva. Il che sarebbe stato il minimo. Ora, a parte esprimere tutta la solidarietà e la vicinanza del caso alle donne dell’IGEA come agli operai della Vinyls o della Legler, bisogna incoraggiare tutti questi lavoratori a abbandonare la visione assistenziale della politica e a interiorizzare la necessità di un cambio di rotta radicale. Le misure di assistenza e di sostegno al reddito devono essere pretese e ottenute, ma come momentaneo ristoro, non come obiettivo tattico dentro un orizzonte di mantenimento dell’esistente. L’esistente non esiste più.
I destini del lavoro in Sardegna non possono più discendere da strategie ed interessi il cui baricentro stia altrove, né da improvvisazioni, illusioni, mancata valutazione delle dinamiche internazionali. Non solo, ma è anche doveroso pretendere dalla politica non promesse clientelari e soluzioni tampone (come si è fatto ancora pochi giorni fa in occasione della visita del sottosegretario Del Rio), ma una precisa progettazione di soluzioni strutturali, che coinvolgano direttamente i lavoratori non solo nelle loro fase realizzativa, ma prima di tutto nella fase della pianificazione. Ovviamente tutto ciò non si può chiedere alle forze politiche che hanno come unico e solo obiettivo il mantenimento della condizione di dipendenza dell’isola. Anche su questo il mondo del lavoro deve fare un riflessione seria, non più procrastinabile.
Detto ciò, va precisato che i buoni motivi per scioperare oggi ci sono e sono tanti e consistenti. Mi meraviglia anzi la condiscendenza con cui il mondo del lavoro in Italia ha subito in questi ultimi trent’anni lo spostamento netto di reddito e di vantaggi a favore della frazione più ricca della popolazione. In Italia e in Sardegna. La mobilitazione e il conflitto sociale sono ridicolmente sroporzionati, per difetto, rispetto ai reali sviluppi socio-economici in corso. I sindacati in questa drammatica incomprensione hanno una responsabilità enorme. In più, in Sardegna, ne hanno una storicamente ancora più grave: quella di essere stati, come evidenziato, un fortissimo fattore di dipendenza. Se non c’è dunque nessun buon motivo per non scendere in pazza, oggi e in altre circostanze, ce ne sono molti per maturare un approccio critico verso l’impostazione sindacale dominante e verso la politica sarda attuale.
Se non si raggiungerà al più presto la consapevolezza che occorre una visuale specifica sarda e una prospettiva di emancipzione reale del mondo del lavoro sull’isola, tra qualche anno non ci sarà più alcun mondo del lavoro da difendere, in Sardegna. La parte attiva e produttiva della nostra società deve prenderne atto e decidere cosa fare, a prescindere dalle sue articolazioni interne ed evitando l’ennesima “guerra tra poveri” (dipendenti pubblici contro dipendenti privati, lavoro dipendente contro lavoratori autonomi, autoctoni contro immigrati, ecc. ecc.). Non solo per sé, categoria per categoria, ma in un’ottica strategica generale. Ci si salva insieme, in Sardegna, o non si salva nessuno.
Articolo molto bello e condivisibile, pur nella necessaria e succinta analisi storica. L’unica cosa che non approvo è la frase finale “o non si salva nessuno”. Non è vero storicamente e non sarà così nemmeno per il futuro: c’è sempre qualcuno che ingrassa sulla fame altrui e anche molti sardi si sono venduti ai conquistatori di turno. Lo faranno anche domani, come lo fanno oggi e lo faranno per ignoranza, o per fame, o per invidia. Una nuova e necessaria politica non deve aver paura di combattere il servilismo che attanaglia non solo la politica coloniale dei partiti nazionali e dei sindacati a loro vicini, ma anche promuovere iniziative pratiche di un’economia nuova, che si indirizzi proprio nella direzione di un modello esistenziale diverso, rispettoso dei bisogni umani e di quelli dell’ambiente non umano in cui viviamo. Il nuovo avrà certamente molti nemici, anche tra i sardi. Sarà bene non dimenticarlo.
Grazie per l’analisi assai acuta. La situazione è comunque vera per tutta l’Italia ed in tutte le democrazie occidentali, basta pensare ai rapporti fra Hartz e la dirigenza sindacale germanica.