Se la Storia chiama, bisogna rispondere

La questione dell’autodeterminazione della Sardegna entra in una fase di estrema urgenza. I venti di guerra che soffiano alle frontiere dell’Europa arrivano direttamente sull’isola, sotto forma di asservimento militare: uno degli elementi chiave che mostrano impietosamente come stiano le cose. L’opinione pubblica è in gran parte sedata; l’ambito intellettuale sardo è in larga parte organico al sistema di potere dominante o direttamente embedded, ingaggiato a sua difesa. La classe politica isolana (maggioranza e opposizione) lavora sodo in campo comunicativo, cimentandosi in un continuo effetto annuncio per coprire il vuoto decisionale e la mancanza di dignità e senso di responsabilità. Così il governo italiano ha gioco facile a assumere decisioni fondate unicamente sulle sue ragioni, senza curarsi affatto che tali decisioni abbiano effetti deleteri sull’isola.

Intendiamoci, questo è del tutto normale e pienamente giustificato. Non c’è alcuna forma di crudeltà gratuita o di malvagità, nel voler fare della Sardegna un territorio totalmente asservito a interessi estranei. In questo genere di faccende contano pressoché esclusivamente i rapporti di forza e il reciproco riconoscimento di soggettività tra le entità politiche in campo. Se la Sardegna non ha alcuna soggettività politica e se la sua forza è misurabile da zero all’indietro, ne deriva automaticamente che essa è un oggetto storico e che non può avere alcuna voce in capitolo, nemmeno su se stessa. Bisogna attribuire correttamente le responsabilità, in questo schema. Noi Sardi ne abbiamo molte.

In questi giorni si sommano diversi anniversari storici significativi. Dai fatti bellici di cento anni fa (inizio della I Guerra mondiale), allo scoppio della II Guerra mondiale (1939), fino all’impiccagione di Salvatore Cadeddu (leader dei rivoluzionari sardi nel tentativo di insurrezione del 1812, giustiziato il 2 settembre 1813) ai “moti” di Buggerru del 1904. Dal piano generale a quello specifico sardo gli allarmi della Storia suonano in un unisono cacofonico quanto inascoltato.

Il problema è che siamo abituati a pensarci tutto sommato al riparo da eventi veramente drammatici. Assuefatti alle narrazioni commerciali hollywoodiane e alle fiction televisive di bassa lega (cui si rifanno come modello anche i mass media maggiori), non riusciamo a cogliere la portata di una crisi storica nemmeno quando ci siamo già dentro fino al collo. Men che meno ci riusciamo in Sardegna, dove siamo stati addestrati a considerarci perennemente esclusi dal corso principale degli eventi storici.

Ma le cose succedono e a volte succedono proprio a noi, e a noi, a noi che viviamo il presente, tocca affrontarle. O subirle. E non solo per quel che ci riguarda direttamente, ma anche in nome e per conto di chi ci seguirà. Che lo vogliamo o no. E allora alla questione dell’autodeterminazione della Sardegna bisogna cominciare a dare risposte concrete e bisogna farlo adesso. Non sto parlando dell’indipendenza formale. Quella attiene a un altro livello del discorso e sarebbe importante non tirarla in ballo a sproposito, anche perché è troppo facile che diventi uno strumento di distrazione di massa o una copertura per disegni di potere opachi e dannosi quanto la dipendenza e i suoi cascami. Parlo di autodeterminazione, ossia della capacità, facoltà e libertà di assumere decisioni su noi stessi, come soggetti storici collettivi riconosciuti. L’indipendenza giuridica è un corollario contingente di questo discorso, non il teorema principale.

Oggi come oggi alla Sardegna e a chi la abita è preclusa ogni forma reale di autodeterminazione. Condizione resa particolarmente penalizzante dalla nostra posizione geografica, che invece già di suo dovrebbe spingere ad una assunzione di sovranità compiuta. Invece, più sono strutturali e strategici gli ambiti su cui intervenire, meno la Sardegna dispone di capacità decisionale. Il che, se mai è stato accettabile o comprensibile, oggi minaccia di condurci rapidamente (per i tempi storici) verso un grado di povertà materiale e immateriale, di spopolamento e di disarticolazione sociale da cui sarà molto complicato riemergere. Gli strumenti e le grandezze in gioco sono di efficacia e dimensioni notevolmente maggiori rispetto al passato e i margini di aspettativa di recupero tendono a precipitare col passare degli anni, vista la condizione critica dell’intero pianeta. Le vie di uscita, insomma, sono più strette e più difficoltose che mai. Al contempo occorre una dose di coraggio e senso di responsabilità molto alta, data la posta in gioco.

Come già scritto, in questi frangenti è alto il rischio di una rivoluzione passiva. Il lavoro di vigilanza critica e di sensibilizzazione capillare dei cittadini dovrebbere essere la priorità di tutti gli agenti forti nel mondo della formazione delle opinioni, tra gli “organizzatori del sapere”, tra i grandi portatori di interesse. Si tratta di legare il processo di autodeterminazione a un grande sforzo di emancipazione sociale e culturale, ed anche economica, che metta in chiaro i rapporti di produzione e il conflitto latente dentro la nostra collettività. In questo senso è del tutto controindicato ricorrere a una retorica puramente nazionalista (i Sardi contro gli Italiani, la Nazione sarda contro il Nemico esterno, magari gli immigrati). Questa è una risorsa narrativa buona per una rivoluzione passiva, appunto, dunque fondamentalmente “tossica”, anti-emancipativa. Allo stesso modo è del tutto controindicato fissarsi su distinzioni autogratificanti ma sterili (come l’opposizione indipendentisti/unionisti, che per la maggioranza dei Sardi non significa nulla, o altre analoghe), dato che la vera contrapposizione, molto più concreta, è tra chi trae vantaggio dalla condizione di dipendenza e subalternità (una minoranza tutto sommato ristretta) e chi da essa ha solo da perdere e in effetti sta perdendo (gran parte della popolazione, nelle sue varie componenti).

Se nei prossimi mesi non si raggiungerà una massa critica sufficiente a innescare un cambio di rotta significativo, una grossa fetta delle nostre possibilità di sopravvivenza sarà compromessa. Un ulteriore abbassamento del nostro tenore di vita sancirà il superamento della soglia di non ritorno. Se chi ha interesse a tenere la Sardegna a propria disposizione non farà mosse troppo stupide, i Sardi si abitueranno definitivamente all’idea di essere destinati alla soggezione, senza altra scelta che non sia tra la sua accettazione e la fuga. Siamo già pericolosamente vicini a questo esito.

Non tutti coloro che hanno sostenuto e/o votato i partiti italiani in Sardegna e i loro sodali sono dei folli o degli stupidi o dei malintenzionati. Perciò la speranza è che almeno davanti all’evidenza conclamata delle cose qualcuno sappia fare la scelta di campo più libera e dignitosa, non puramente tattica ma finalmente strategica. Ma sarebbe auspicabile un colpo di reni soprattutto dalla parte non del tutto corrotta e compromessa della nostra classe intellettuale, dal mondo dello sport, da quello delle associazioni, dal variegato universo del folklore e delle tradizioni popolari, da parte dei giornalisti onesti, degli imprenditori più seri, del mondo del lavoro (quindi non mi riferisco ai sindacati confederali e ai loro apparati clientelari). È uno sforzo di coscienza e di responsabilità che deve essere collettivo o non avrà alcun peso.

La questione delle servitù militari, quella dei trasporti e quella dell’espropriazione del nostro territorio per trivellazioni o altro possono essere gli elementi catalizzatori di una mobilitazione generale che dovrà trovare nuove forme di coesione con cui alimentarsi e un orizzonte politico forte a cui fare riferimento. Ci giochiamo molto, in questo frangente storico. Nessuno potrà ritenersi assolto.