E’ uno strano cortocircuito teorico quello generato dalla concomitanza tra due anniversari così diversi come il 14 luglio francese (1789, presa della Bastiglia) e il ricordo della morte di Antoni Simon Mossa (avvenuta il 14 luglio 1971). Eppure una data assurta a simbolo di libertà e riscatto sociale ha un nesso abbastanza evidente con le idee dell’esponente neo-sardista algherese. Il problema è caso mai che Antoni Simon Mossa in Sardegna è pressoché sconosciuto.
Eppure se oggi esiste un vasto e variegato movimento indipendentista sardo e se negli ultimi anni sta maturando presso una larga fetta dell’opinione pubblica la consapevolezza di quanto sia necessaria e ineludibile la prospettiva della nostra autodeterminazione, molto di deve a lui.
Erede di una importante dinastia algherese, da generazioni schierata in campo progressista e nazionalitario, Antoni Simon Mossa ebbe il merito storico di reimpostare il discorso sardista, ormai incancrenito e sostanzialmente chiuso, attraverso rilevanti dosi di concetti e acquisizioni tratti dall’elaborazione politica e intellettuale del secondo dopo guerra, formulando una coerente e lucida analisi della situazione sarda e proponendo senza mezzi termini la via dell’indipendenza nazionale come unica strada per garantire alla Sardegna la propria esistenza nel mondo, dentro la rete di interdipendenze che la Modernità aveva ormai imposto.
Un pensiero molto avanzato, forse addirittura troppo, per l’ambito politico sardo degli anni Sessanta, molto più attratto dalle sirene (traditrici come sempre) della Rinascita a base di industria chimica e petrolifera e di speculazione edilizia. Eppure decisamente fecondo. Tanto da essere riscoperto a più riprese e rilanciato anche a molti anni di distanza.
Tutto sommato, i problemi posti da Simon Mossa sono ancora sul tappeto. Non averli affrontati e tanto meno risolti è una precisa responsabilità della classe dominante sarda di questi ultimi quarant’anni. Quella stessa classe dominante i cui portavoce politici oggi si stracciano le vesti al cospetto dello stato italiano patrigno e invocano un salvifico “sovranismo”, millantando voglie indipendentiste che in realtà si guardano bene dal coltivare.
Del resto, è così che funziona da duecento anni. La classe dominante sarda, a dispetto delle apparenti mutazioni subite nel corso di due secoli, concepisce se stessa e la Sardegna sempre allo stesso identico modo. Uno dei suoi principi cardine, come abbiamo visto altre volte, è l’allontanamento da sé di qualsiasi responsabilità. Naturalmente, per poter durare così a lungo, anche in periodi di gravi crisi sociali ed economiche, come quelle vissute nel corso dell’Ottocento e poi del primo Novecento e ancora dal secondo dopoguerra a oggi, tale congrega di affaristi, speculatori, monopolisti e podatari ha dovuto costruire un mito di appartenenza che infondesse scoraggiamento, disillusione e scarsa coesione nelle masse. Il mito identitario sardo risponde appunto a queste caratteristiche.
Contro quel mito identitario si scontrava Simon Mossa, pur non riuscendo a ribaltarne del tutto i concetti. E contro l’imposizione di una Modernità come apparato di meccanismi economici, rapporti di produzione, strutture sociali e simbologie calati dall’alto e dall’esterno in funzione del mantenimento della Sardegna in una condizione di subalternità.
Il nostro problema fondamentale infatti è che la nostra presa della Bastiglia (il 28 aprile 1794) non ha prodotto effetti virtuosi, una dialettica “espansiva” (per dirla con Gramsci), bensì si è tradotta in un fallimento. Fallimento dovuto al rifiuto da parte della classe dominante sarda di farsi classe dirigente nazionale, tanto nel 1799 quanto nel 1848 e poi ancora tra fine Ottocento e primo Novecento e soprattutto nel 1920-2 e ancora nel 1943-6. Una serie di fallimenti, dunque, reiterati e ripetuti ormai stancamente, senza nemmeno più lo slancio narrativo di un tempo. Oggi chi domina la Sardegna (per lo più per conto terzi, ma traendone ancora lauti vantaggi) non sa più cosa inventare, per perpetuare uno status quo che la debolezza dello stato italiano contribuisce a smascherare sempre più come inaccettabile.
Così forse è adesso il tempo per riannodare il filo della storia, spezzato con le ultime speranze rivoluzionarie in Sardegna ai primi dell’Ottocento. Quei principi di libertà, eguaglianza e fratellanza che la Modernità dispiegata imponeva allora in Europa potremmo forse realizzarli noi oggi, mentre cala il crepuscolo su quella stessa epoca umana.
Certamente in termini diversi da quel che sarebbe stato duecento anni fa. Ma nondimeno con tutta l’urgenza di una riappropriazione di noi stessi non più rinviabile, pena la nostra estinzione come collettività storica e l’abbandono definitivo della Sardegna alle mire rapaci di chi concepisce il mondo solo in termini di profitto privato nel breve termine.
La libertà è strettamente connessa con le possibilità materiali e con i bisogni spirituali. Porre le condizioni pratiche perché i sardi possano dispiegare i propri talenti, coltivare le proprie aspirazioni, senza sentirsi sempre e comunque figli di un dio minore, congenitamente inferiori, è una necessità storica evidente. Solo una logica di dominio può temere la circolazione delle idee e delle persone, l’interrelazione, lo spirito collaborativo e la crescita della consapevolezza diffusa. E infatti i sardi oggi non sono liberi. Non sono liberi di muoversi, non sono liberi di conoscersi, non sono liberi di coltivare la propria cultura e il retaggio millenario della loro storia, non sono liberi di essere se stessi in modo sereno, non scisso e conflittuale.
Alla libertà è strettamente legata l’uguaglianza sia in termini formali, sia in termini sostanziali. Uguaglianza che non teme ma anzi incoraggia il merito, l’eccellenza, l’emulazione verso l’alto. Uguaglianza non significa mediocrità, non significa soffocamento delle energie creative a vantaggio delle doti di servilismo e meschinità. Uguaglianza significa dare a tutti l’opportunità di coltivare se stessi, di liberare nel mondo la propria personalità, insieme agli altri, non in continua competizione, bensì in termini complementari, collaborativi. E significa dare a ciascuno il suo, quel che merita e quel che serve alla propria esistenza, a cominciare dalla disponibilità dei beni comuni.
La fratellanza si può e si deve declinare in termini di appartenenza. Di appartenenza ad una collettività storica, in cui non ha senso l’individualismo miope, né l’interesse privato immediato. Una collettività che riconosce se stessa come tale, dotata della coscienza profonda della propria storia, della propria ubicazione nel tempo e nello spazio, come popolo tra i popoli.
Alla luce di quanto precede, non suona poi così avventuroso l’accostamento tra il 14 luglio francese e la commemorazione di Antoni Simon Mossa. Si tratta magari di trasformare questo apparente cortocircuito in una opportunità di comprensione storica e di emancipazione spirituale e politica. Precisamente ciò che Simon Mossa auspicava.