C’è la fine del mondo e non ho neanche l’abito adatto

Chi non penserebbe che siamo vicini alla catastrofe, mettendo insieme le notizie di questi giorni? Piaghe bibliche, veleni non risanabili sparsi qui e , dati statistici deprimenti, betoniere pronte a confezionarci un bel sarcofago di cemento e la Canalis che viene esclusa da un reality in America. Un disastro su tutti i fronti.

Qualcuno ancora è convinto che la salvezza ci arriverà da fuori. Una professione di fede davvero singolare, in una terra che da “fuori” tutto ha ricevuto nel corso della storia, tranne che interventi salvifici. Di quale “fuori” stiamo parlando, poi? Dell’Italia di fatto governata dalla BCE? Dell’Aga Khan – ultimo babbu mannu rimastoci, pare – distratto dal suo divorzio a molti zeri, anche dalla Sardegna? O forse dell’apparato affaristico che sta distruggendo, senza darsene troppo pensiero, l’economia e la vita stessa di milioni di persone?

E ad un tratto qualcuno si sveglia e scopre che i sardi emigrano. E vai! Che notizia sconvolgente. Un fenomeno così vasto e preoccupante e nessuno che se ne fosse ancora accorto. Vedi alle volte quanto serve la stampa.

Insomma, io dico, dobbiamo continuare a prenderci in giro ancora per molto? Aspettiamo le cavallette, la pioggia di rane o l’acqua dei fiumi che diventa rossa? (No, non sto parlando di Protovesme.)

Se la metà del reddito complessivo è in mano al 10% dei cittadini, se in Sardegna ci sono sette otto famiglie che controllano, gestiscono e si distribuiscono risorse, denaro, potere e ne rendono conto – oltre che al proprio portafogli – solo ai loro referenti esterni, mentre tutto crolla, non sarà per caso che è in scena quella brutta cosa chiamata lotta di classe e nessuno ci aveva avvertito? Una lotta unilaterale, dove chi ha vuole di più a spese di tutti gli altri, e gli altri se le danno tra di loro, rimbecilliti da false narrazioni a volte veramente mediocri. È di una tale evidenza, questa cosa, che è persino difficile trovare le parole per renderla più chiara.

Tuttavia, constatare la cruda realtà non basta affatto. E nemmeno denunciarla. Occorre uno sforzo in più, sia in termini di consapevolezza, sia in termini di reazione concreta.

Ora, io stesso ho sempre dichiarato che bisogna incominciare da se stessi, dal proprio quotidiano, a cambiare le cose. Ed è vero: è un principio che ritengo sacrosanto, sano e proficuo. Ma non basta. Perché siamo animali sociali, perché siamo evolutivamente vincolati alla salvezza del nostro branco, per la nostra salvezza individuale e familiare. L’individualismo generato dall’ideologia moderna, dalla logica del capitale a giustificazione di se stessa, la “competitività” eretta a dogma metafisico, è una boiata anti-evolutiva, deleteria per la nostra specie (noi compresi) e purtroppo anche per altre. Il che significa che a reagire non devono essere i singoli. Per quanto consapevoli, informati e critici, i cittadini da soli, uno per uno, non possono nulla. Ed anche scendere in piazza per indignarsi in compagnia (così si ha la confortante sensazione di fare cose, vedere gente) lascia il tempo che trova.

Occorre invece ritessere rapporti, comunicare, collegarsi. Oggi si usa dire “fare rete”. Facciamola, però. Se c’è una cosa che la Modernità ci ha insegnato è che per contrastare le grandi spinte delle forze economiche  e culturali dominanti è necessaria organizzazione, comunione d’intenti. E individuare la controparte. Le beghe nominalistiche su elementi contingenti o marginali del discorso fanno il gioco di chi vuole mantenere lo status quo.

Chi è la controparte dei sardi, in questo momento? Be’, non è facile riconoscerla, perché ha tanti volti e molte articolazioni. C’è un livello prossimo, che sono i pochissimi veri potenti che sfruttano noi e la nostra terra, non necessariamente forestieri. Penso a grandi monopolisti di cui ignoriamo persino l’esistenza, padroni degli appalti, grandi manovratori ben ammanicati. E ovviamente i loro galoppini politici, i prestanome, gli esecutori di ordini, i dipendenti mascherati da amministratori pubblici. Poi ci sono i loro garanti esterni e il gran mondo dei centri di potere e interesse a livello italiano. E questi a loro volta dipendono da padroni più grossi e famelici di loro.

Cosa possiamo fare noi, dunque? Direi che un grande passo avanti potrebbe essere recidere i legami tra i padroni “locali” e quelli più lontani. Indebolire i podatari, negare loro il controllo delle nostre vite qui e ora minandone la legittimità a stare dove stanno. Per farlo dobbiamo prima renderci conto di quali meccanismi ci siano dietro e di quali siano i nostri reali interessi.I nostri interessi diretti, personali.

Che la Sardegna non diventi un atollo di cemento e campi da golf è un mio interesse personale. Che la terra, l’acqua e l’aria non siano contaminate da ordigni bellici, rifiuti pericolosi e mortiferi o discariche abusive è un mio interesse personale. Che chiunque possa lavorare in modo sano, assecondando se non le proprie aspirazioni più alte almeno il proprio senso di dignità, per soddisfare necessità reali; che non si debba soccombere a un criminoso ricatto occupazionale e accettare qualsiasi schifezza in cambio di un reddito di sussistenza sempre precario; che i soldi delle mie imposte rimangano là dove le ho pagate per garantirmi i servizi di cui ho bisogno; questi sono tutti miei diritti e miei interessi personali.

Da dove cominciare allora? Intanto direi, dal riprenderci il controllo della sfera politica. Su due livelli: controllo dell’operato degli amministratori e loro sostituzione se non all’altezza, partecipazione; rottura del vincolo di dipendenza politica da centri di potere ed interesse istituzionalmente estranei a noi.

In quest’ambito, chi sostiene che la questione dell’indipendenza politica della Sardegna non abbia direttamente a che fare con l’emancipazione concreta, materiale, oltre che spirituale e morale, dei sardi, mente per insipienza o per interesse. Dovrebbe essere chiaro ormai. E per renderlo possibile bisogna agire sull’esistente, dentro le formazioni sociali, le istituzioni, i mass media che ci sono, non aspettare di creare condizioni diverse, ideali, prima di agire. Le condizioni ideali non ci saranno mai, meglio che lo capiamo alla svelta.

Naturalmente la sfera politica è solo un elemento – sia pur importante – della faccenda. Da fare ce n’è molto, in tutti i campi. Le risorse, anche quelle umane, non ci mancano, contrariamente a quanto ci vogliono far credere. Certo, spesso sono costrette a emigrare. Ma ci sono e per lo più ci si può contare. Intelligenze e talenti, messi a frutto con le risorse materiali di cui disponiamo, possono garantirci un futuro accettabile. Una possibilità di vita degna di essere vissuta, anche in mezzo allo sconquasso che questa transizione di civiltà sta producendo.

Ma non possiamo tergiversare, perché la storia non aspetta e la necessità di tirarci fuori dagli impicci da soli è già qui, non di là da venire in un futuro indeterminato. Io non voglio restituire ai miei figli un mondo peggiore di quello che ho trovato, ma se non mi do una mossa è precisamente quello a cui sto prestando il mio consenso e di cui mi sto assumendo la responsabilità. Tocca a me e a te, insieme, adesso. A nessun altro.