Quel che resta da fare

L’attuale fase di transizione storica, avviatasi tra il 1971 e il 1973, comporta una serie di eventi ed epifenomeni che – al di là delle loro manifestazioni contingenti – rispondono a processi macroscopici e di lunga durata difficili da controllare. Nondimeno, le classi dominanti del nostro tempo, come quelle di qualsiasi altra epoca umana, hanno fatto, fanno e faranno di tutto per preservare la propria posizione privilegiata, se del caso anche a discapito dell’intera umanità (o di quella larga parte di essa di cui prevedono di non aver bisogno).

Uno dei grandi processi in corso è la fine dell’economia-mondo (Braudel, 1979) con epicentro a New-York City e lo sviluppo – problematico e complesso come è inevitabile che sia – di una economia-mondo globale, il cui centro propulsore non si sa bene quale potrà essere. Forse sarà la Cina, forse l’India, forse il Sud-America. Ovvero, più plausibilmente, potrebbe anche ridisegnarsi una situazione policentrica, in cui si riposizioneranno le due o tre economie-mondo dominanti che scaturiranno dal riassetto del sistema economico-politico planetario attuale.

Naturalmente, non è facile prevedere quale ruolo giocheranno in questo processo le varie componenti culturali, politiche, sociali e produttive. Non si sa se e quanto continuerà a dominare il capitale, né se gli ordinamenti giuridici di stampo statuale avranno ancora a lungo una soggettività storica attiva. Si tratta di due lasciti della modernità che non scompariranno senza che si siano manifestate altre forze in grado di sostituirli, in una dinamica complessa magari anche pesantemente conflittuale.

In questa fase, sembra che il ruolo dell’Italia sarà ridimensionato sensibilmente al rango di entità geografica strumentale a logiche più ampie. Non è detto, infatti, che nei prossimi decenni non giunga al collasso la fragile struttura giuridica messa su in modo avventuroso in quello che si chiama ancora pomposamente (e ideologicamente) Risorgimento italiano. Tanto per dire, se solo nel corso di questo stesso anno appena cominciato venissero al pettine i nodi irrisolti dell’abnorme debito pubblico dello stato italico, esso potrebbe subire uno degli scossoni decisivi verso la sua dissoluzione come ente politico coeso e sovrano.

È inevitabile, in questo scenario, comunque se ne articolino gli sviluppi concreti, provare a formulare almeno una idea di quale potrebbe essere la sorte della Sardegna. Oggi assistiamo al peggioraramento netto della sua condizione politica, economica e sociale. È il portato della lunga crisi a cui, come entità marginale e subordinata di un sistema più ampio, non abbiamo potuto sottrarci in alcun modo. Questo, sia per questioni strutturali, sia per responsabilità delle nostre classi dominanti. Se è vero che al peggio non c’è mai fine, tuttavia si impone una riflessione su quali potrebbero essere le vie di uscita meno traumatiche da questa situazione in rapido deterioramento. Servirebbe il concorso delle migliori forze intellettuali e morali sarde, per trovare il bandolo della matassa. Ma non sembra che la classe dirigente attuale, ivi compresi coloro che occupano i ruoli intellettuali, le professioni e le funzioni politiche, sia in grado di sottrarsi alla logica egoistica imposta dai pochi che governano le risorse di cui disponiamo (o potremmo disporre) come collettività.

In ogni caso, appare evidente che la condizione di regione periferica e subordinata di uno stato altro, per di più scalcinato come quello italiano, non si concilia con alcun progetto serio e praticabile circa un nostro progresso economico e sociale. Ecco perché il dibattito sull’acquisizione più o meno rapida di sovranità e di soggettività politica a un livello internazionalmente riconosciuto non può tardare a dare esiti costruttivi. Il problema, in questo senso, non è più il se, ma il quando e il come. È una questione che va al di là della retorica identitaria (buona semmai a frustrare tale necessario processo emancipativo) e non ha affatto a che fare con ostilità ideologiche o, peggio, nazionaliste, verso l’Italia o chiunque altro. Si tratta semplicemente di imboccare, col passo migliore possibile, la strada che la storia ci mette davanti.

Se la Sardegna nei prossimi decenni non sarà un soggetto politico sovrano (comunque si finisca per declinare questa condizione storica), finirà ridotta a una terra miseranda, spopolata, buona per esercitazioni militari, centro di raccolta privilegiato per scorie e rifiuti di ogni sorta, e – lungo la fascia costiera – meta di vacanzieri danarosi e avventurieri in caccia di fortuna. Un po’ l’ideale che la banda berlusconizzata che domina l’Italia ha in mente da qualche tempo. Non sarà il caso che qualcuno gli rovini i piani?