In questi giorni risulta molto facile ricorrere ad esempi concreti per dimostrare dove sta una delle radici profonde della questione sarda.
In ambiti particolarmente sensibili, perché riguardanti diritti e beni comuni infungibili (salute e igiene pubblica, libertà di spostamento, fruizione del territorio, ecc.) la giunta Pigliaru esprime posizioni chiarissime su quali siano i suoi orientamenti e su quali interessi intenda proteggere.
Nel delicato ambito della gestione dei rifiuti, pur non avendo uno straccio di pianificazione seria e lungimirante in materia, la giunta dei professori non si oppone (dunque aderisce) al programma del governo italiano sugli inceneritori, accettando di realizzarne uno in più sul suolo sardo, benché si sappia da tempo che si tratta di una soluzione antiecologica, antieconomica e in controtendenza rispetto alla politica di riduzione e riciclo tante volte sbandierata (e sempre boicottata, di fatto).
In materia di servitù e di occupazione militare, le informazioni ufficiali mettono in luce la falsità delle dichiarazioni pubbliche del prof. Pigliaru e dei suoi colleghi sulla riduzione dell’utilizzo bellico dell’isola, mostrandone la reale durata, nonché dimostrando la totale noncuranza del governo italiano per le legittime e motivatissime proteste dei cittadini, dei movimenti e dei comitati sardi contro la guerra.
Nel settore dei trasporti, smascherate le bugie sulle pretese procedure sanzionatorie degli organismi europei a proposito di favoritismi alle compagnie low cost, ecco che l’assessore Deiana estrae dal suo cilindro la genialata dell’anno: abbattere la domanda per venire incontro all’offerta. O, in alternativa, far spendere molto a chi ha davvero bisogno di spostarsi, in una interpretazione radicale e punitiva della legge di mercato. Trattandosi di un diritto e di una necessità vitale, è persino imbarazzante dover ribadire che un’idea simile è a dir poco irricevibile.
Sono esempi di una prassi consolidata, singoli episodi di una casistica ormai cospicua.
Cosa ci dimostrano questi casi concreti? Intanto che la politica istituzionale sarda, imperniata sulle succursali proconsolari dei partiti italiani, non risponde ai sardi, né in tutto né in parte, ma solo a propri interessi inconfessati e a quelli dei propri mandanti e padroni occulti (ma molto esigenti). Si configura cioè un gravissimo problema di democrazia.
Non è possibile parlare di politica in Sardegna eludendo questo aspetto. La nostra classe dirigente (per così dire) non ha alcun rapporto diretto con il popolo che dovrebbe rappresentare e governare, ma prevalentemente è selezionata per garantire e perpetuare il nostro rapporto di dipendenza e di subalternità, come più volte sostenuto, qui e altrove.
Un’altra questione, collegata alla prima, riguarda la qualità della politica in Sardegna. Spesso a chi propone la strada dell’autodeterminazione si oppone l’obiezione che la Sardegna non potrà mai autogovernarsi, vista la mediocre classe politica e dirigente di cui dispone. Quasi sempre tale obiezione esce dalla bocca o dalla tastiera di esponenti di detta classe politica e/o dirigente, ovvero di suoi sostenitori. Il che è piuttosto paradossale e dimostra meglio di altre circostanze quanta faccia di bronzo serva per mantenere certi ruoli privilegiati.
La questione della mediocrità della nostra classe politica non discende da una nostra tara genetica collettiva e non rappresenta affatto la qualità civile e culturale dei sardi nel loro insieme. L’attuale compagine di governo in Regione è stata votata da un quinto degli elettori sardi, per di più spacciandosi per una alternativa seria e competente alla compagine che l’ha preceduta. Peccato che siano sostanzialmente la stessa cosa. Anche soggettivamente, nelle persone di alcuni suoi esponenti.
Il menzionato assessore Deiana era consulente della giunta Cappellacci, l’assessore Maninchedda era autorevole membro della maggioranza al consiglio regionale sotto la medesima giunta Cappellacci (con responsabilità notevoli negli organi consiliari, come la commissione bilancio) e lo stesso presidente Pigliaru collaborava a stretto contatto con l’allora assessore al bilancio La Spisa.
Il ruolo dell’informazione in Sardegna su questo ha una pesantissima responsabilità, ma lasciamo sullo sfondo questo problema. Emerge con evidenza che l’establishment che domina la scena sarda è piuttosto coeso al suo interno, salvo le scaramucce e le lotte intestine per accaparrarsi maggiori vantaggi. È coeso e si fa forte della propria appartenenza ai partiti italiani o ai loro satelliti collaborazionisti locali.
Il che significa che senza l’attuale condizione di dipendenza questa stessa classe politica e la gran parte della classe dirigente sarda (compresa quella accademica e intellettuale) sostanzialmente non esisterebbe. Nel senso che mancherebbero le condizioni storiche per la sua esistenza. Ne esisterebbe un’altra. Migliore? Chi lo sa? Certamente non potrebbe essere esclusivamente selezionata, legittimata e protetta dalla fitta rete di interessi e grumi di potere esterni da cui dipende quella attuale.
In questo senso, l’obiezione di cui sopra perde completamente di consistenza. Una delle ragioni fondamentali della mediocrità e della cialtronaggine sfacciata della nostra classe politica è precisamente la dipendenza, la mancanza di reale autonomia, l’assenza di una classe dirigente autoctona, espressa dal popolo sardo, emersa da dinamiche sue proprie. È il problema fondamentale che ci ha consegnato la fine del periodo rivoluzionario e l’epoca della Restaurazione, problema mai risolto ed anzi accentuatosi in concomitanza e a causa dell’unificazione italiana.
Non c’è partita politica, economica o sociale su cui esista una volontà collettiva dei sardi, sia pure nelle articolazioni interne che ogni collettività umana produce. Questo perché i sardi non hanno alcuna rappresentanza istituzionale, non hanno alcuna forma di soggettività politica, nemmeno per gruppi sociali, per formazioni intermedie loro proprie, ma sono ancora oggi un mero oggetto storico in mani altrui.
L’isolamento geografico (verso l’esterno e all’interno), il particolarismo (corporativo, clientelare, di campanile e dialettale) e la deprivazione culturale sono strumenti generali, complementari tra loro, molto pratici e facili da usare, per mantenere tale status quo: basta dichiarare di combatterli, nel momento stesso in cui li si persegue, confidando sulla carenza di studi, di informazioni, di dati e, all’occorrenza sulla manipolazione di quelli esistenti. Su tali metodi sta puntando, con una certa abilità, la giunta Pigliaru, com’è evidente.
Del resto non era un mistero che le cose sarebbero andate così, per chi ha la possibilità di ragionare liberamente. Questo hanno dunque scientemente scelto coloro che hanno votato e fatto votare l’attuale compagine di governo regionale, alla faccia del “voto utile” e dell’alternativa seria alla giunta Cappellacci.
Alla luce di tutto ciò, la questione dell’autodeterminazione assume anche, se non prima di tutto, i contorni di una questione di buona politica. Senza scrollarci di dosso la condizione paracoloniale in cui ci troviamo e senza innescare un processo emancipativo popolare, partecipato, che sia al contempo risolutivo nei suoi obiettivi e pedagogico nel suo svolgimento, siamo destinati a soccombere.
Non possiamo aspettarci che l’attuale establishment politico risolva alcuno dei nostri problemi macroscopici. Non è lì per questo scopo, bensì per l’opposto. Continueremo a pagare profumatamente acqua inquinata come se fosse potabile, ad avere un sistema di trasporti interno assurdamente inefficiente, a perdere abitanti, saperi, forme di relazione virtuose, a perdere cultura e istruzione, a essere sempre più poveri e malati.
Il processo di autodeterminazione, riempito di contenuti ideali e pragmatici seri, emancipativi, democratici, è probabilmente il solo antidoto rimasto alla deriva dissolutrice di cui siamo già ora vittime. Vittime in qualche misura consenzienti, beninteso. Non abbiamo più molte scuse, specialmente chi gode di una posizione sociale meno fragile di altri e chi ha un grado di istruzione e cultura che gli consente di capire cosa sta succedendo. Uno degli obiettivi fondamentali dei prossimi mesi e anni sarà far cadere il prima possibile l’attuale giunta regionale e creare le condizioni per un’alternativa che non ci consegni nelle stesse mani o in mani peggiori.