Nel movimentato dibattito sardo a proposito del referendum per l’indipendenza scozzese sono emerse varie posizioni, alcune delle quali meritano di essere discusse. Altre, intese semplicemente a trarne ipotetiche conferme per lo status quo, possono essere serenamente tralasciate. In particolare, tra le considerazioni proposte nell’ambito politico indipendentista e dintorni, alcune si sono soffermate su un aspetto della campagna referendaria scozzese: la mancanza di enfasi sulle questioni identitarie, storiche, strettamente culturali. A tale assenza è stato attribuito l’insuccesso del referendum. L’obiezione dunque è che fondare una richiesta di soggettività politica e giuridica solo su questioni economiche, sociali, amministrative e di attualità non basta a garantire un consenso ampio alla prospettiva indipendentista. Sono obiezioni da prendere in considerazione, prima di tutto perché non sono di tipo meramente strumentale, inoltre perché toccano temi rilevanti del dibattito politico sardo contemporaneo.
Si possono individuare due specificazioni di questa obiezione generale. In un primo caso è stata stigmatizzata l’assenza dei temi culturali e specialmente linguistici, come elemento di debolezza della richiesta di indipendenza. Si sostiene che mancando un elemento di identificazione forte come la lingua, anche la pretesa di essere riconosciuti come un soggetto storico a tutto tondo, meritevole di autodeterminarsi, perde consistenza. Tale posizione, con varie sfumature, è stata assunta da esponenti del movimento linguistico sardo come Pepe Corongiu ed è sostanzialmente condivisa dalla gran parte di tale movimento. Il che è perfettamente comprensibile, oltre che legittimo. Tuttavia la pecca principale di questa argomentazione è che applica a un luogo geograficamente distante e con una storia alquanto diversa dalla nostra delle cornici interpretative prettamente sarde, come tali non facilmente esportabili. È l’errore speculare a quello di chi, in Sardegna, presume di poter prendere esempio da modelli di autodeterminazione stranieri per applicarli sic et simpliciter al nostro caso. Ovviamente, non può funzionare così, né in un verso, né nell’altro.
Tanto più che la questione linguistica scozzese è a sua volta molto diversa da quella sarda e non presenta lo stesso tipo di problemi. In Scozia esistono tre lingue specifiche, a vario grado di attestazione e di antichità (il gaelico scozzese, lingua celtica di estrema minoranza ormai; lo scots, che è una lingua germanica propria della Scozia, parente dell’inglese; l’inglese di Scozia, o Scottish Standard English, una sorta di dialetto inglese peculiare di questa nazione), e in più ovviamente c’è l’inglese standard britannico come lingua di dominio generale. Non esiste un problema di minorizzazione linguistica, né un disconoscimento a nessun livello del diritto degli Scozzesi di usare la lingua che vogliono (il gaelico, benché usato da circa l’1% della popolazione, è considerato lingua nazionale a tutti gli effetti). Senza contare che la Scozia, negli ultimi anni, è diventata una terra di immigrazione di varia provenienza (compresa la Sardegna). In definitiva, questa prima sotto-obiezione rivolta al processo di autodeterminazione scozzese pecca a mio avviso di incongruità e di astrattezza.
La seconda sotto-obiezione riguarda aspetti più propriamente politici. Si contesta l’eccessiva enfasi posta su questioni sociali ed economiche, presentate per di più con un taglio politico decisamente orientato a sinistra, o verso modelli socialdemocratici. Cosa per altro abbastanza vera, nel senso che lo Scottish National Party ha insistito molto sulla differenziazione della propria idea di stato (nel welfare, nell’istruzione, nei servizi pubblici, nei diritti di cittadinanza, nel rapporto con l’Europa, ecc.) rispetto al modello fondamentalmente thatcheriano ancora vigente nel Regno Unito a egemonia londinese. Il riferimento esplicito era alle democrazie scandinave (e qui, se proprio volessimo sottolineare questo fattore culturale, il passato in parte vichingo della Scozia di fatto emergerebbe, in qualche modo). Da alcuni osservatori nostrani, appartenenti soprattutto al campo strettamente indipendentista, si è considerato questo approccio troppo sbilanciato, di parte, non ecumenico, come tale inadatto a fondare un’appartenenza più ampia di quella che può suscitare un partito politico. Anche qui c’è un equivoco, dovuto da un lato alla poca conoscenza della realtà scozzese, da un altro all’applicazione (forse inconsapevole) di una visione altrettanto di parte di quella contestata allo SNP.
Intanto, che la Scozia sia una nazione a sé non è disconosciuto da nessuno, né mai lo è stato. Il Regno Unito si chiama così proprio perché tiene insieme diverse componenti storiche ben definite e mai negate dalla monarchia britannica e dai suoi governi. Gli Scozzesi non hanno alcun bisogno di cercare conferme della propria appartenenza nazionale. Caso mai hanno il problema opposto, segnalato più sopra, di includere in un movimento di emancipazione politica i tanti non Scozzesi residenti oltre il Vallo di Adriano. La seconda parte di questa sotto-obiezione pecca come detto di parzialità. Assumere la Nazione come un’entità storica reale, dotata nel suo insieme di un’unica soggettività, di un unico volere, di un insieme di necessità e interessi comune e indistinto, è una visione a sua volta orientata politicamente. Negare che nella rivendicazione di indipendenza politica possa avere piena legittimità anche il modello di cittadinanza e di ordinamento giuridico e sociale a cui si vorrebbe dare vita, equivale a negare che ci siano differenze sostanziali e non sempre ricomponibili tra classi, gruppi, formazioni intermedie, o che esse abbiano rilevanza.
Invece ce l’hanno, e proprio l’esempio scozzese ci mostra didascalicamente come il percorso di indipendenza sia quasi inevitabilmente anche un percorso di ricerca di un modello di democrazia, di una forma di convivenza, di valori di riferimento. Lo dimostra perché al dunque chi si è opposto con forza all’indipendenza sono state le grandi banche, specie quelle d’affari, i grandi gruppi internazionali, le corporation e gli agglomerati politici che li rappresentano. Ossia, il mondo del grande capitale finanziario e parassitario. Senza dimenticare che uno dei più grandi spauracchi politici, in Scozia, è precisamente il fantasma di Margaret Thatcher, odiata dalla gran parte della popolazione (eccetto chi dal thatcherismo ha avuto e ha ancora da guadagnare, appunto). Anche questa, insomma, mi pare un’obiezione poco centrata e argomentata in modo tendenzioso.
Sia come sia, svolgere compiutamente questo dibattito è importante, in Sardegna. Non tanto perché si possano trarre dalla Scozia insegnamenti diretti, quanto perché fa emergere alcuni nodi del nostro tessuto politico che tendono ad essere nascosti o rimossi. Invece molta parte degli equivoci, e non solo in ambito indipendentista, nascono dal mancato scioglimento di tali nodi. Così, il mantra sull’unione degli indipendentisti (o sedicenti tali) che periodicamente riemerge, come accaduto anche in questo caso, mostra tutta la sua debolezza politica proprio quando si arriva a discutere delle visioni e dei valori di fondo, elementi sui quali non esiste omogeneità. Pretendere che tutto il discorso dell’autodeterminazione dei Sardi sia inscritto nella questione dell’indipendenza, lasciando fuori le questioni sociali, il conflitto tra classi, tra forze contrastanti intrinseche alla nostra collettività storica, e i diversi modi di affrontare questa dialettica interna, porta solo a una visione fondamentalmente di destra dell’intera faccenda. Ed è facile allora manipolarla in direzione di un unanimismo che altrimenti non avrebbe ragion d’essere, magari spostando il focus sulla ricerca di un leader, piuttosto che sulla sostanza delle scelte politiche e sul loro orientamento.
Ma questa è la via maestra per una rivoluzione passiva, come segnalato più volte: ossia, servirsi della retorica, della simbologia e del lessico indipendentista per provare a generare non tanto un processo emancipativo dentro la società sarda, quanto una mera sostituzione di classe dirigente (o meglio, dominante). Così si spiega la disinvoltura con cui si può parlare di sovranismo, ossia di sostanziale cooptazione, a scopo di normalizzazione, di istanze e elementi indipendentisti nell’ambito dipendentista dei partiti italiani. Così si spiega anche l’inefficacia del messaggio indipendentista in quanto tale, quando rimane fine a se stesso, autoreferenziale. È una inefficacia che lascia le cose come stanno, consentendo a chiunque di dichiararsi indipendentista a buon mercato, senza doversi davvero assumere delle responsabilità concrete, tranne quella di difendere il proprio fortino identitario e magari garantirsi una leadership là dentro. Ma non sposta di un millimetro le possibilità di liberazione e di emancipazione del nostro popolo.
Che, ribadisco, sarà liberazione e emancipazione anche contro una parte della nostra collettività nazionale: quella che da duecento anni domina la scena, garantendo la condizione subalterna della Sardegna, anche a proprio vantaggio. Bisogna essere chiari, su questi aspetti, e scegliere come posizionarsi, con franchezza e onestà intellettuale. Solo così il percorso della nostra autodeterminazione potrà essere sgomberato dai fumi e dagli ostacoli che lo rendono ancora oscuro e poco attraente per tanti che invece potrebbero percorrerlo con convizione.