Come al solito, non si può stare tranquilli un attimo.
Partiamo dalle urgenze più immediate. Elezioni amministrative e referendum sul nucleare caratterizzeranno le giornate di domenica e lunedì prossimi. Le due consultazioni non sono collegate, almeno formalmente, ma politicamente è chiaro che entrambe saranno interpretabili come segnali di orientamenti generali.
Ai sardi il compito di esprimersi e di esprimersi possibilmente con chiarezza, contro la cappa di conformismo e di subcultura depressiva che ci ammorba e ci impoverisce, anche materialmente.
Che ci sia la crisi, che la Sardegna ne soffra più di altre aree europee, è un dato di fatto. Se si pensa che la ricetta sia la protesta, magari anche numericamente consistente, ovvero la rivendicazione di aiuto e tutela da pare del governo italiano e dei suoi proconsoli nell’Isola, stiamo sbagliando calcolo per l’ennesima volta. E meno male che all’asino sardo, ecc. ecc.
Per questo, più che continuare a dire no e poi piegarsi a qualsiasi prepotenza o imposizione, occorre cominciare a dire qualche sì, proprio come sulla scheda del referendum. La lamentela non serve, serve progettualità e una nuova prospettiva in cui inserire un percorso di emancipazione collettiva.
In questo senso, la protesta popolare relativa all’impianto di quattro giganteschi radar destinati a monitorare le coste sarde (per contrastare l’immigrazione clandestina? mmh, gatta ci cova…) sembra offrire al panorama sociopolitico sardo il segnale che qualcosa sta cambiando.
Dai e dai, stiamo capendo che queste decisioni calate dall’alto, totalmente funzionali a interessi alieni, distanti da quelli collettivi di chi vive nei territori interessati e in generale agli interessi di tutti i sardi, non sono più accettabili.
E non certo per una qualche forma di emersione della famigerata sindrome NIMBY (che vuol dire: non nel mio cortile), ma proprio in linea di principio, come rifiuto dell’approccio top-down che da troppe generazioni caratterizza tutte le decisioni strutturali e strategiche sarde.
L’autodeterminazione non è né un costrutto ideologico cui sacrificare la realtà, né una utopia buona per consolarsi in tempi cupi, ma una precisa necessità storica cui deve corrispondere una assunzione di responsabilità collettiva.
Dato che la classe politica sarda è del tutto impreparata o troppo complice con i poteri dominanti per potersi opporre all’inerzia di impoverimento che ci opprime, devono essere tutti i sardi di buona volontà a svegliarsi dal sonno della ragione, dall’inedia della subalternità indotta, e cominciare a dire una propria parola su ciò che li riguarda. Una parola che non sia solo contestazione dell’esistente, ma proposta seria e concreta, sia per il presente sia per il futuro.
Basta dire no, adesso è il tempo di dire qualche sì. Prima di tutto a noi stessi.