Eppure non è un tema secondario. Sarebbe estremamente utile capire come si è sviluppata la politica in epoca contemporanea, almeno dal passaggio tra Sette e Ottocento in poi, fino a oggi. Non solo e non tanto nelle sue scelte di governo o legislative, nell’azione pubblica dei partiti e delle organizzazioni, ma anche al suo interno, nei meccanismi di selezione del personale, nelle tecniche di accaparramento del consenso, nei legami con i vari gruppi sociali.
Nella produzione storiografica esistente si reperiscono spunti, indizi, elementi di ragionamento, ma occorrerebbero ricerche e studi specifici, a tappeto, spulciando documenti interni delle organizzazioni, comunicati e propaganda, testimonianze della militanza, rapporti di polizia e fonti d’archivio varie.
Non sarebbe nemmeno male riuscire a confrontare in modo serrato le posizioni teoriche e ideali con i risultati conseguiti o non conseguiti. Senza dimenticare la questione centrale della relazione tra la politica sarda e quella italiana, le sue dipendenze, i suoi compromessi e i suoi tradimenti.
Quello che posso osservare, in generale, è che la politica, in Sardegna, è una sorta di corpo estraneo rispetto alla collettività umana che abita l’isola. Chi fa politica si sente un corpo separato, chi la subisce la percepisce allo stesso modo.
Non c’è una compenetrazione organica, bidirezionale, dinamica tra società civile e società politica. C’è invece una sorta di sistema che sa molto di feudale, in cui contano i rapporti diretti e personali, le fedeltà, la capacità di catturare consenso in qualsiasi modo, la furbizia di non scontentare i più potenti e di sfruttare chi ha meno potere.
Per la cittadinanza comune la politica non è una funzione necessaria e consustanziale alla democrazia. In Sardegna non abbiamo mai maturato una vera democrazia, al di là delle forme e di qualche libertà concessa dall’alto e spesso alquanto astratta. Dunque non esiste nella nostra società civile, nel senso comune delle persone, alcun reale istinto democratico.
Della politica si diffida e la si teme. Se proprio ci si deve avere a che fare, si cerca di ottenerne favori e vantaggi. Fenomeno che viene alimentato ad arte dalla politica stessa, per la propria sopravvivenza.
Chi fa politica attiva in Sardegna, la fa per garantirsi vantaggi personali o familiari e per proteggersi da eventuali attenzioni della giustizia (come sosteneva già Francesco Pais Serra nella sua relazione al Governo del 1896). È un esercizio di conquista del potere e del suo mantenimento.
Potere che può essere anche relativo, non troppo visibile. Un posto fisso per qualche legislatura in consiglio regionale è un obiettivo ottimale per la stragrande maggioranza del personale politico dei partiti più forti. C’è anche ci preferisce ruoli di sottogoverno, direzione o presidenza di qualche ente pubblico o para-pubblico, magari dove si maneggia qualche soldino. Le ambizioni non vanno molto oltre questo.
Discorso in parte diverso per le componenti antagoniste, “anti-sistema”, autonome e per quelle indipendentiste. In quest’ultimo caso non senza distinguo.
Esiste tanta politica, in Sardegna, fuori dal Palazzo, ed esistono e sono radicate e diffuse aspettative e propensioni ideali legittime e persino nobili, che però non trovano alcuna trasposizione concreta a livello elettorale, sia locale sia generale.
Le poche indagini demoscopiche disponibili (parlare di ricerche sociologiche e indagini conoscitive è troppo) segnalano che una fetta consistente e probabilmente maggioritaria della cittadinanza è favorevole a una forte autonomia o addirittura a una piena indipendenza della Sardegna.
Così come i processi di identificazione indagati sembrano indicare un senso di appartenenza magari confuso e non sempre risolto, ma molto diffuso e radicato. Il che del resto è riconosciuto pressoché universalmente anche dal senso comune, soprattutto delle persone non sarde.
Tutto questo, però, non si è mai tradotto, se non saltuariamente e a fatica, in termini propriamente politici. Fenomeno che ha facilitato l’emarginazione mediatica dell’indipendentismo per molti decenni e in larga misura ancora oggi.
Nel dibattito pubblico, l’indipendentismo e i tentativi di costruire percorsi politici alternativi alle filiali sarde delle organizzazioni italiane sono sempre stati liquidati (mistificando la realtà) come i “partiti dello zerovirgola”, rimossi dallo scenario in virtù di un consenso giudicato minimale e marginale e come tale non rappresentativo di alcuna vera pulsione collettiva.
Nel confondere i risultati elettorali con la diffusione di idee e aspirazioni c’è della mala fede. Ma naturalmente c’è anche un elemento di verità: esiste una certa debolezza elettorale – ossia nella raccolta del consenso – delle organizzazioni indipendentiste e anti-sistema.
Quando da questo variegato ambito di militanza qualcuno ha scelto di accasarsi presso le forze politiche dominanti, in qualche caso ha ottenuto vantaggi per sé, ma 1) non ha mai cambiato di una virgola l’inerzia politica sarda e 2) ha procurato un danno oggettivo e a volte di notevoli proporzioni a tutto il movimento che pretendeva di rappresentare.
Anche le forze che sono rimaste esenti da compromissioni e opportunismi, tuttavia, hanno accumulato negli anni errori e fraintendimenti, per di più reiterati. Lo si è visto in modo molto evidente in occasione della campagna elettorale del 2014.
L’ostilità di una parte cospicua dell’indipendentismo verso la candidatura di Michela Murgia, prima, durante e dopo la campagna, al di là delle cose che Sardegna Possibile avrebbe potuto fare meglio, attesta una radicale incomprensione del momento politico, delle priorità e dello stesso risultato conseguito (per approfondire, sia pure da un punto di vista non neutrale, rimando al mio libro in proposito).
Una certa propensione ai principi astratti e alle parole, ai bei discorsi, ha sempre condizionato l’indipendentismo sardo. Che ha sempre preferito una malintesa coerenza, spesso solo lessicale, all’azione politica sul terreno, a contatto con tutte le contraddizioni e l’eterogeneità della realtà sociale e culturale isolana.
Ha avuto il suo peso anche una certa postura leninista, in base alla quale l’indipendentismo si è perlopiù visto come un’avanguardia illuminata che avrebbe dovuto guidare il popolo imbelle verso la libertà.
La stessa scelta dei temi e degli ambiti a cui dedicare le proprie attenzioni ha spesso tradito una certa lontananza teorica e pragmatica dai bisogni e dalle aspettative concrete delle nostre comunità.
Inoltre, ha avuto un peso notevole, nella rincorsa vana al consenso elettorale, il mancato radicamento locale, l’azione diretta e situata delle organizzazioni o dei gruppi informali prima di tutto nelle proprie comunità di appartenenza.
Oggi si segnala una vaga attenzione all’intersezionalità, diffusa nell’ambiente della militanza culturale di ispirazione indipendentista ma pochissimo praticata e ancor meno amata – per varie ragioni – dalle poche sigle strettamente politiche ancora operanti.
Tutti problemi ed errori di cui si è già parlato (almeno qui), ma che non hanno mai costituito temi di seria analisi dentro le organizzazioni e nell’ambiente indipendentista in generale.
Va però precisato, secondo me, che la debolezza dell’indipendentismo e delle forze esterne al gioco truccato dei partiti coloniali (non dobbiamo vergognarci a definirli così) non dipende solo dai loro errori, ma anche appunto dalla forma che ha assunto nei decenni la politica nell’isola, dalle sue modalità, dalla percezione che ne ha la cittadinanza.
E qui torniamo al discorso iniziale. In una collettività umana, formalmente organizzata in un ordinamento democratico, dove però di democrazia reale ce n’è stata sempre poca, è difficilissimo conquistare consenso ponendosi come alternativa virtuosa, sulla base di ipotetici buoni proponimenti, a un sistema che vive invece solo grazie al suo potere di ricatto, al clientelismo, alla relazione privilegiata con centri di potere e di interesse molto forti e tipicamente esterni all’isola.
Pochissime persone, anche politicizzate, in Sardegna associano alla politica capacità decisionali virtuose e orizzonti strategici seri. La separatezza tra politica e vita reale si fa sentire anche in chi la politica la fa, sia dal lato dell’ordine dominante sia da quello di chi vi si oppone. È difficile superarla.
La distanza tra aspirazioni ideali e rassegnata accettazione dell’esistente è assunta come naturale, ordinaria, non superabile. Non c’è idea o principio che bastino a convincere un numero cospicuo di persone adulte e dotate di diritto di voto a spendersi per promuovere una candidatura politica che quei principi e quelle idee rispecchino e si impegnino a realizzare. Non ci crede pressoché nessuno.
Il disincanto è profondamente radicato. Non ci si aspetta nulla, dalla politica, se non quel poco che la politica sarda, nei decenni, ha dimostrato di poter dare: favori, elargizioni, pasticci più o meno grandi, cedimenti dolorosi e asservimenti di vario tipo a corposi interessi dello Stato centrale o di grosse entità private.
In questo trentennio abbondante post Guerra fredda abbiamo assistito a un declino costante, non omogeneo ma dall’andamento generale chiaro, di tutti gli aspetti della vita associata, a cominciare appunto da quello politico. Negli ultimi vent’anni, a parte il primo, illusorio biennio della giunta Soru, a ogni elezione abbiamo sentito la promessa, a parti invertite, di fare meglio dei predecessori da parte di chi di volta in volta ha prevalso; salvo poi, a conti fatti, constatare che si era trattato della “peggiore giunta regionale di sempre”.
È successo con Cappellacci, è successo con Pigliaru, è successo con Solinas e oggi sta succedendo con Todde. La cosa sorprendente è che anche persone avvertite e non necessariamente compromesse col potere sono cascate più di una volta nella stessa trappola. Com’era il detto sull’asino sardo? Forse bisognerebbe aggiornarlo. In peggio.
La lamentela secondo cui si va a votare “turandosi il naso”, in mancanza di alternative credibili, lascia il tempo che trova. E non va dimenticato che siamo in piena vigenza di una delle normative elettorali meno democratiche dell’intero mondo “occidentale”. Problema che la politica di Palazzo non ha alcuna intenzione di risolvere, al di là delle dichiarazioni retoriche e dei diversivi. Perché per essa, appunto, non è un problema.*
Insomma, è molto difficile parlare di politica sarda fuori dalla cronaca e dai giochi di parte. Sia perché ci mancano studi e approfondimenti adeguati, in vari ambiti disciplinari (a parte i meritori lavori del politologo Carlo Pala e pochissimo altro), sia perché ormai l’idea stessa di politica radicata nella nostra collettività è così ristretta e desolante che alla maggior parte delle persone risulta indigesta la sola parola.
La rimozione sistematica, dal dibattito intellettuale, dalla produzione culturale e dall’agenda istituzionale, del nodo decisivo della nostra subalternità e della dipendenza forzata dallo Stato italiano è al contempo una causa profonda dei nostri mali e un motivo di inquinamento della stessa politica.
* Sono in corso due iniziative – dal basso, come si dice – per proporre al Consiglio regionale una riforma complessiva, in ottica proporzionalista, della normativa elettorale. Nonostante un consenso diffuso per queste iniziative, e a dispetto di una proposta di revisione – minimale, ma già migliorativa – avanzata da una componente della stessa maggioranza consiliare, la giunta Todde preferisce spendere denaro pubblico (si parla di 300mila euro) per chiedere una consulenza a esperti esterni circa una possibile riforma elettorale. Dilazionando la faccenda in un triennio, ossia fino a fine legislatura. Come si può definire, in linguaggio corrente, un’operazione del genere? Fate voi.
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