letteratura

Recensione: ELIAS MANDREU, Nero riflesso, Nuoro, il Maestrale, 2009

Romanzo di esordio di un nuovo collettivo letterario sardo.

In una Nuoro dei giorni nostri, dissimulata ma non troppo, si articola una vicenda complessa di speculazioni economiche poco pulite (in molti sensi), di indagini poliziesche, di efferati crimini da assassini seriali e di vicende personali che intersecano e rimescolano tutto il resto. Un protagonista apparentemente bello e dannato convive con personaggi variamente ed efficacemente assortiti, in un tourbillon di azione, mistero, crudeltà fisica e psicologica, passioni forti e intrigo della miglior specie.

Nel complesso, un plot ben orchestrato, personaggi credibili e ben delineati, un’ambientazione resa verosimile dal camuffamento di toponimi e antroponimi, pur senza togliere al lettore curioso il gusto del riconoscimento, rendono questo romanzo una lettura avvincente e divertente, senza cadute di stile o di ritmo, fino ad una conclusione a sorpresa in cui, tuttavia, l’abilità della costruzione narrativa prevale sulla necessità del colpo di scena sensazionale.

Un esordio come pochi, non solo nel panorama letterario sardo. Appare chiaro il grande lavoro di scrittura, ma traspare anche la frequentazione degli autori con la migliore letteratura di genere contemporanea, a cominciare da quella nord-americana: dialoghi efficaci (un po’ alla Leonard o alla Ellroy); descrizioni rapide e icastiche, mai retoriche; ironia (e autoironia). Il tutto, senza che intervenga la principale magagna della letteratura noir di matrice italica: l’invadenza dell’autore. In questo, come negli altri pregi del romanzo, si intravede la mano scrupolosa di un editing finalmente all’altezza della situazione, evenienza  questa ormai rara nel mondo editoriale contemporaneo (almeno in ambito italico).

Si tratta certamente di un romanzo importante, insomma.

Innanzi tutto sfata alcuni luoghi comuni sulla letteratura sarda, apparentemente condannata al bozzetto etnico o folkloristico. Inoltre, riscatta la Sardegna, e Nuoro in particolare, da quella marginalità simbolica e antropologica che vorrebbe relegarci ad una condizione esotica e perennemente in ritardo sulla contemporaneità, rendendo invece molto bene alcuni aspetti della realtà sociale, politica e culturale della Sardegna odierna. Gioca un ruolo qui, l’anagrafe. Gli autori appartengono a quella generazione di sardi (e nuoresi in particolare) che è nata e cresciuta all’epoca della TV dei Ragazzi e dei fumetti. Una generazione slegata dalla reverenza verso radici ancestrali troppo spesso rivelatesi castranti, molto più aperta al mondo, pur senza rinnegare la propria appartenenza. Non entra mai in questione la sindrome identitaria, così facile come espediente letterario e così comoda come strumento di ottundimento delle coscienze. Ma in questo caso non c’è nemeno il complesso di inferiorità provinciale e deprivante che tanta parte ha nella costruzione del sistema egemonico dominante in Sardegna.

Unica nota stonata, la presentazione editoriale del romanzo. Nel primo risvolto di copertina si legge questo: “Sono le voci e i testimoni di una provincia estesa quanto l’Italia, rappresentata da una Sardegna lontana dai luoghi comuni e affollati delle coste e del folclore”.  Riemerge qui proprio quel provincialismo e quel complesso di inferiorità che pure la lettura dell’opera tenderebbe a esorcizzare. Il riscatto della Sardegna dai “luoghi comuni e affollati”, sembrerebbe, deve necessariamente avvenire estendendone i confini di senso a “tutta l’Italia”. Il criterio di validazione dell’opera starebbe nel suo inserimento nel panorama culturale e letterario italiano. Di questo, però, non si vede la necessità né la ragione. L’uscita dalla condizione marginale e subalterna non si può sostanziare nell’inserimento in un altro orizzonte asfittico e periferico come quello italiano contemporaneo. Non è questa l’idea che suggerisce il romanzo. Caso mai, al contrario, la rottura delle barriere provinciali si realizza in un orizzonte più ampio, a 360°, aperto verso l’Europa e il mondo. Ne da ampia testimonianza la  chiara ascendenza letteraria di molta parte del romanzo, certo più debitore, come detto, alla migliore produzione noir statunitense che a quella poliziesca italica, sia in termini stilistici, sia come espedienti narrativi. Il fatto che sia scritto in italiano (e molto opportunamente senza concessioni a inutili e artificiosi inserti linguistici sardi) non cambia di una virgola il discorso.

Ma di questa caduta di senso e di stile non ha responsabilità il testo in sé. Che rimane una preziosa boccata d’ossigeno nell’atmosfera inquinata e soffocante di questi tempi difficili.

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Omar Onnis

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