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Libri, intellettuali organici e subalternità: il caso Dr Drer

Alcune settimane fa è uscito il secondo libro di Michele Atzori anche noto come Dr Drer o Su Dotori, Ponitì a una party (autoprodotto sotto il marchio fittizio delle Edizioni Filtrinelli). Dopo la prima fortunata prova letteraria, Giornata avara, una conferma e un ennesimo motivo di riflessione sulla nostra condizione storica, sullo stato della nostra politica e sul nostro ambiente culturale (in senso ampio).

Come il libro precedente, anche in questo caso Su Dotori allinea fatti e aneddoti autobiografici, condendoli di riflessioni specifiche e generali su vari aspetti della nostra balorda condizione umana. Nostra, ossia sarda. C’è posto per tante tematiche, dalle forme di socializzazione spicciola, al funzionamento delle amministrazioni pubbliche, fino ai fatti di costume e di consumo e alle questioni politiche macroscopiche.

Dico subito che rispetto a Giornata avara è chiaramente riconoscibile un più accurato lavoro di assemblaggio del testo e di rifinitura. Perché tutto si può dire, tranne che “il ragazzo” non si applichi e non studi.

Non è un tentativo di accreditarsi presso un pubblico dal palato più fine. A Su Dotori non importa nulla del plauso dell’establishment culturale isolano, quello dei festival letterari e delle kermesse troppo spesso auto-colonizzate, dei mass media addomesticati e dei circoli intellettuali accademici. Non ne fa parte, sia per un fatto di estrazione sociale, sia per percorso di vita, sia anche per volontà. E comunque non vi è mai stato invitato. È una incompatibilità profonda che già di suo dice tanto del clima culturale sardo contemporaneo.

Il titolo del libro allude, ironicamente (la variazione grafica della “y” al posto della “i” è voluta, meglio precisarlo), a un episodio diventato subito famoso e, come suol dirsi, “virale”. Un’ospitata televisiva a una tribuna politica, in qualità di candidato alle elezioni regionali del 2009. Se ne trova facilmente il video integrale in Rete (non vi linko YouTube). Chi non ne sappia nulla, può dare un’occhiata lì. Ma nel libro Michele racconta senza tanti filtri come andarono le cose.

La fama guadagnata, suo malgrado, con quell’episodio, è rimasta a lungo attaccata al personaggio pubblico Su Dotori, rischiando di oscurare il suo impegno da militante politico e culturale, prima di tutto in ambito musicale.

Anche in questo caso, riguardo la produzione musicale di Dr Drer – con la Crc posse o, ultimamente, anche da solista – la critica “seria” e il circuito festivaliero sardo hanno quasi sempre opposto una sorta di congiura del silenzio. È un tratto tipico del sistema culturale mainstream isolano: ogni elemento di disturbo, ogni possibile fonte di discussione dello status quo va oscurato, eluso, ignorato; al massimo, etichettato in modo sminuente, possibilmente ridicolizzato.

Il che, a sua volta, aggiunge ulteriori motivi di riflessione. Perché è vero che la produzione musicale di Dr Drer non ha, né pretende di avere, tratti di originalità o di ricercatezza stilistica ed estetica, ma ha anche una caratteristica abbastanza notevole.

Su Dotori ha mostrato fin da subito e poi affinato negli anni un certo talento per l’elaborazione in forma poetica e canora di temi a volte piuttosto complessi: dalla questione “occupazione militare” a quella linguistica; dalla vertenza entrate all’assalto speculativo sulle fonti energetiche rinnovabili; dal militarismo “banale” ai personaggi storici o della cronaca irregolari, liberi, non sottomessi.

Questo talento, che potremmo già definire narrativo, in cui si intrecciano e si mescolano influenze della musica militante degli anni Novanta con la tradizione poetica popolare sarda, ha sicuramente favorito il passaggio alla narrazione più strettamente letteraria.

Una narrazione letteraria inquadrata in un genere meticcio, certamente non-fiction, ma nemmeno banalmente autobiografico o cronachistico.

La lucidità e la sincerità con cui Su Dotori affronta le questioni che la sua militanza gli ha fatto conoscere sul campo, nelle vertenze, nella riflessione non solo teorica ma anche operativa, si traduce in una scrittura agile e immaginifica, a sua volta meticcia, ma controllata e molto efficace.

In molte pagine ci ritroviamo sul terreno, rarissimo in Sardegna, della satira politica o di costume.

È proprio la credibilità “di strada” di Michele Atzori, la sua riconosciuta coerenza politica e morale, a dare forza alle sue parole. Che non suonano mai auto-incensanti, anche grazie a dosi calibrate di auto-ironia.

Ciò ne fa un testimone prezioso dei nostri tempi e anche un esempio raro di intellettuale organico al movimento di emancipazione storica della Sardegna che non si è montato la testa, che non ha preteso alcun piedistallo (o, ancora meglio, qualche poltrona ben retribuita) su cui collocarsi.

Dico “raro”, perché invece la nostra storia contemporanea, diciamo dalla Restaurazione in poi, è caratterizzata dal sistematico “tradimento dei chierici” e dal mancato collegamento tra il livello delle lotte popolari, delle rivendicazioni sociali e politiche, e un’intellettualità attiva che si mettesse al servizio dei movimenti e ne elaborasse le ragioni e il discorso.

A parte la poesia popolare, grande dimenticata di tutti gli studi accademici in ambito storico e letterario, con qualche posto negli studi antropologici, è da sempre mancata la saldatura tra teoria e prassi, tra le rivendicazioni sociali e il ceto medio istruito.

Il ceto medio istruito, in Sardegna, è una delle nostre peggiori sciagure storiche. I suoi apici a livello universitario e professionale, con stabili legami politici e dinamiche di clan e persino neo-feudali, sono una vera maledizione. Ne abbiamo esempi pressoché quotidiani anche oggi.

L’elusione della cosiddetta questione sarda da parte della nostra intellettualità universitaria, da parte del mondo della scuola, da parte del medio e alto funzionariato pubblico e da parte del mondo delle professioni (senza dimenticare la chiesa) è un problema strutturale decisivo, a cui è difficile porre rimedio, data la forza dell’egemonia culturale passivizzante e razzializzante imposta per tante generazioni sulla popolazione sarda.

Il ruolo assunto da Su Dotori, in questo contesto, acquista una rilevanza più che proporzionale, proprio per la sua eccezionalità. E forse anche a dispetto delle sue intenzioni. È una responsabilità notevole, sicuramente.

Ponitì a una party è ben scritto, nonostante l’understatement con cui l’autore ne parla, è divertente e pieno di spunti interessanti. È una lettura indispensabile per chi voglia capire qualcosa della Sardegna di questi tempi e ha il vantaggio di non essere un’opera destinata solo a un pubblico “competente”, dotato di strumenti di decodifica sofisticati, come di solito, per sua stessa natura, è la saggistica (quella che vale la pena di leggere, ossia una frazione minoritaria di quella prodotta annualmente in Sardegna).

Sui contenuti, l’unica obiezione che mi sento di muovere riguarda l’interpretazione, un po’ sminuente, che Michele dà dell’inno rivoluzionario Su patriota sardu a sos feudatàrios. Leggetevela, per capire di cosa parlo. Ma è una questione che non affronterò qui (magari lo farò un’altra volta) e di cui prima o poi discuteremo di persona.

Forse il fatto che la Sardegna abbia bisogno che un autore di canzoni, sia pure impegnate, si trasformi in un autore di libri rivelatori, e per questo *necessari*, è a sua volta un aspetto della nostra problematica condizione storica.

Intanto però possiamo essere grati a Su Dotori per quello che fa e per come lo fa. E, a chi ne è infastidito, disgustato, spaventato, possiamo sempre replicare con un sonoro “ponitì a una parti!”.

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Omar Onnis

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