Accettare l’inevitabilità dello scontro di civiltà è accettare la fine della civiltà

Infuria la guerra in Palestina, non è cessata quella in Ucraina, altri fronti bellici rimangono aperti in giro per il pianeta, ma l’ossessione delle classi dominanti occidentali è di ribadire la legittimità della propria supremazia e chiamare i propri popoli alla guerra santa contro i nemici dell’Occidente.

È una situazione non sorprendente ma non per questo meno pericolosa. Nella propaganda incrociata relativa alla guerra in Ucraina il problema ha fatto capolino, ma in termini vaghi. La Russia di Putin è presentata come uno dei Nemici, le si attribuiscono tratti diabolici, la si connette col Nemico più grande oggi in campo (la Cina), ma è difficile chiamare in causa un conflitto di civiltà contro un paese che fa parte a pieno titolo della civiltà europea.

I gruppi che dominano la Federazione Russa hanno una gravissima responsabilità storica, che sarebbe bello far scontare loro in termini di giustizia internazionale. In ogni caso, la loro responsabilità – politica, morale, storica – è innegabile. La guerra contro l’Ucraina è un atto criminoso ingiustificabile. Le conseguenze saranno pagate ovviamente prima di tutto dalla popolazione ucraina e poi, direttamente o indirettamente, almeno in parte, da quella della Federazione russa. L’Europa, o meglio i suoi governi statali, aspettano solo di mettere le mani sulla “ricostruzione”, per trarne lauti guadagni (privati). Gli USA si accontenterebbero forse di indebolire la Russia, anche se a naso otterranno solo di costringerla a orbitare più da vicino intorno all’altro polo, quello cinese.

In tutto questo è difficile comunque far passare e digerire l’idea di un conflitto tra forme di civiltà differenti e inconciliabili. Ci hanno provato, ma non è durata.

La geo-politica fai-da-te è sempre un comodo strumento di propaganda, benché non spieghi pressoché niente dei reali processi storici. Alla fine, in ogni caso, restano inevase questioni di fondo decisive, che i portavoce dei padroni del mondo provano a ridefinire a proprio piacimento.

Oggi sul Corriere esce un lungo editoriale, o commento che dir si voglia, di Federico Rampini, dal titolo “La colpa di essere ricchi (per i nostri giovani)”. Vi si presenta una sorta di caricatura delle proteste contro la guerra in Palestina e contro l’azione di Israele sulla Striscia di Gaza e se ne trae una spiegazione del tutto capziosa: la colpa di Israele sarebbe di essere uno stato ricco e civile. Da qui un pippone sulla scorrettezza di attribuire all’Occidente la responsabilità dei guasti del colonialismo e un’esaltazione della missione di civiltà del medesimo Occidente.

La conclusione è che i giovani (!) dovrebbero amare i ricchi e odiare i poveri e i deboli, che non hanno sempre ragione, secondo Rampini.

Dal discorso è completamente omessa tutta la parte relativa alla colonizzazione della Palestina da parte delle comunità sioniste, l’appoggio europeo e soprattutto statunitense a queste ultime e ai loro dirigenti, la violenza sistematica degli ultimi quarant’anni da parte di Israele e dei suoi coloni nei Territori Occupati e verso le popolazioni della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, la natura razzista e il regime di apartheid propri dello stato israeliano. Ovviamente si tira in ballo strumentalmente, con un’argomentazione fallace trita e ritrita ma non per questo evitata, l’antisemitismo. Ovviamente, Rampini ne approfitta anche per giustificare la spoliazione coloniale attuata dall’Europa e dal suo amato Occidente su vaste aree del pianeta e ai danni di chi vi abitava (e vi abita).

Uno degli aspetti più gravi è che questo predicozzo plutofilo, suprematista (bianco) e colonialista è rivolto ai giovani. Col piglio paternalista e sfacciatissimo tipico delle generazioni che hanno goduto del boom post seconda guerra mondiale, senza darsi pensiero del domani, e che hanno una pesantissima responsabilità nelle attuali condizioni disastrose del pianeta.

Giusto nello sgangherato paese che è l’Italia un grande giornale può ospitare con tanta disinvoltura un pastrocchio storico e politico di questa portata. Non che altrove manchino prese di posizione di parte e interpretazioni storiche ritagliate su misura dei propri obiettivi. Ma esiste una più netta distinzione tra le opinioni di parte, le analisi “da esperti” e la cronaca dei fatti. In Italia invece, anche nei media più “autorevoli”, regna la disinformazione e impera la cialtronaggine.

Nel dibattito internazionale, al contrario, si fa strada un fronte ampio di denuncia dei crimini di guerra di Israele. Senza alcuno sconto verso quelli di Hamas, per altro. L’ONU una volta tanto sembra aver preso posizione (facendo arrabbiare il governo israeliano). Allarmi pubblici e persino denunce alla Corte Penale Internazionale da parte di giuristi, esperti di relazioni internazionali e associazioni a difesa dei diritti umani sono all’ordine del giorno. Un dibattito che naturalmente innerva anche le manifestazioni popolari di queste settimane. In Italia, nei mass media, c’è poca traccia di questo fermento.

Anche in Sardegna c’è stata una certa mobilitazione suscitata dai fatti della Palestina. Se ci sono stati episodi di aperto sostegno a Hamas, sono stati marginali. E del resto sono inevitabili, in questi frangenti. Difficile non parteggiare per i più deboli, a dispetto di quanto auspicato da Rampini. Il che naturalmente non deve indurci a ignorare il problema dell’odio religioso, del fanatismo oscurantista e della negazione di diritti fondamentali tipici di molte forze che, nello scenario della sponda sud del Mediterraneo e nel Vicino Oriente, si dichiarano nemiche dell’Occidente.

Per quanto poco ci piaccia l’Occidente (posto che esista nella realtà storica una cosa come l’Occidente), non possiamo nemmeno trascurare il problema che il nemico del mio nemico possa essere peggio del mio nemico. È un aspetto che una parte della sinistra – appunto – occidentale fa fatica a metabolizzare e a prendere nella giusta considerazione.

Lo si nota nelle posizioni assunte a proposito della guerra in Ucraina, dove basta che il governo di Kijv sia appoggiato da Europa e paesi anglosassoni per decretarne la natura servile verso l'”atlantismo” (altra categoria mitica e a tratti mistica del dibattito geo-politico nostrano) e la NATO (e anche qui forse bisognerebbe approfondire meglio, ma tant’è).

Sottolineo questi aspetti, perché ritengo che qualsiasi critica e qualsiasi presa di posizione contro il suprematismo bianco, la plutocrazia tecnocratica, il neo-colonialismo, l’imposizione della guerra come strumento di risoluzione ordinario delle relazioni tra i popoli, e la giustificazione degli affari che ne sono la causa e il contorno, debbano sempre tenere in considerazione la complessità del mondo e dei tempi che viviamo.

Non c’è verso che le circostanze reali si incastrino a perfezione dentro gli schemi semplificatori ereditati dal Novecento (e già allora non sempre utili). Bisogna adeguare gli strumenti interpretativi e accettare ibridazioni e intersezioni che sino a una quarantina di anni fa potevano suonare incomprensibili o assurde, ma che oggi sono nell’ordine delle cose.

In tal senso mi trovo in consonanza con alcune cose scritte in queste stesse ore da Cristiano Sabino per il manifesto sardo.

Per inciso, non concordo con il parallelo Donbass-Palestina, se non rovesciando i termini del paragone: il Donbass ha vissuto una dinamica analoga a quella dei Territori Occupati, con la Russia nella parte di Israele; non è certo l’Ucraina il paese occupante. Sempre posto che siano legittime e calzanti simili analogie. E, riguardo il contesto politico sardo, non sarei altrettanto severo nel giudizio sulle tattiche elettorali altrui, che non rappresentano un problema fondamentale e sono comunque legittime, per quanto discutibili; chi le attua, in ogni caso, se ne assume la responsabilità.

Detto ciò, concordo invece sulla necessità di una riflessione a proposito del mutamento della composizione e degli obiettivi delle lotte sociali attuali. I temi che sono oggi sul tappeto sono aggrovigliati in una matassa spesso difficile da riconoscere nei suoi vari fili. Col rischio di ridursi a lotte settoriali di retroguardia o a semplici pose retoriche, giusto per darsi un tono. Quelle che Sabino e altri denunciano come gli elementi decisivi della decadenza delle sinistre italiane (e anche sardo-italiane). Che sono diventate qualcosa di simile a dei club un po’ spocchiosi, liberal, borghesi, del tutto organici allo status quo. Oppure hanno ceduto rovinosamente alle sirene del rossobrunismo.

In Sardegna assumere tali posture significa aver interiorizzato la rimozione della questione sarda come se fosse un fatto ovvio, anzi necessario. A dispetto delle dinamiche storiche in corso, che invece ci richiamano a una più matura ed efficace presa di posizione critica e persino ostile verso l’incrudimento della relazione asimmetrica con lo Stato italiano e a una riflessione a più ampio spettro sul contesto internazionale in cui siamo immersi.

L’intersezionalità, il meticciato, le forme ibride e imprevedibili – come abbiamo visto, gusto per fare un esempio significativo, in Francia – sono ormai tratti comuni delle lotte sociali, politiche, culturali in corso in Europa e altrove. Fenomeno che deve spingerci ad aggiornare le nostre categorie di pensiero e il nostro armamentario concettuale.

Ciò conduce, a maggior ragione, a rifiutare la logica dello scontro tra civiltà e la retorica della guerra tra “poli” imperiali contrapposti come esito storico scontato. Non c’è niente di prestabilito in tutto questo. E non c’è niente di nobile né di buono nel perpetuare la falsa opposizione “Occidente” vs. resto del mondo (incivile). Così come è tutt’altro che connaturato nella storia e nella natura umana acconsentire alla deriva bellica in corso.

Contestare questi schemi imposti egemonicamente dai ceti dominanti globali non equivale a rinunciare alla comprensione e dove necessario alla lotta. Non equivale nemmeno a limitarsi a fare il tifo per una delle (presunte) parti. Significa invece esercitare il libero scrutinio dei fatti e delle loro conseguenze, preservare con tutti i mezzi necessari ogni spazio di libertà di pensiero e di dissenso politico, agire consapevolmente dentro l’ecosistema sociale e politico in cui ci troviamo. Con la coscienza che la scala di molti problemi da affrontare è ormai planetaria e che il sistema degli stati-nazione è ormai del tutto inefficace ad affrontarli, tanto a livello globale, quanto locale.

Tener conto di tutti questi aspetti non è più un mero esercizio teorico, ma tocca direttamente l’elaborazione e la prassi politica. In Sardegna non meno che altrove.

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