La locuzione “questione sarda”, coniata e impostasi tra fine Ottocento e primo Novecento, per quanto molto usata, soffre di una certa vaghezza semantica, dovuta all’uso non sempre limpido che se n’è fatto nel tempo. In ogni caso è il convitato di pietra di ogni discorso sulla Sardegna. Come tale, suona minaccioso per ogni costruzione teorica e/o politica che non sia disposta a mettere in discussione fino in fondo l’ordine sociale e politico esistente. Per questo è perlopiù elusa o del tutto rimossa, anche laddove ci si aspetterebbe di trovarla.
Queste forme di addomesticamento, elusione o rimozione della questione sarda hanno costantemente indebolito e a tratti bloccato qualsiasi tentativo emancipativo in ambito intellettuale e politico, in Sardegna. È uno dei nodi irrisolti del nostro tempo.
Quando il concetto di questione sarda emerse nel dibattito pubblico a cavallo tra XIX e XX secolo, esso indicava il complesso delle difficoltà economiche, sociali, civili che costringevano la Sardegna in una condizione pesantemente deficitaria dentro il nuovo Stato italiano. I vaghi segnali di ripresa successivi all’unificazione dell’Italia erano stati frustrati brutalmente dalle politiche protezioniste dei governi centrali, dagli irrisolti problemi strutturali e dalla crisi finanziaria. A ciò aveva risposto solo un atteggiamento paternalista/repressivo del governo, senza che la classe dirigente sarda riuscisse a proporsi come contraltare forte, attivo e lungimirante.
Le analisi del tempo a tratti coglievano aspetti reali della situazione, sia pure con inevitabili limiti ideologici e teorici, ma non esisteva un “blocco storico” isolano capace di assumere la responsabilità di intervenire in maniera decisa. I pochi politici sardi che avevano accesso a ruoli di rilievo a Roma rispondevano a logiche di schieramento e a cornici ideologiche che di fatto impedivano qualsiasi soluzione strategica ai problemi. Per di più già allora aveva preso piede una forma pervasiva di clientelismo che riduceva la politica a una sorta di nuovo feudalesimo (come già si segnalava allora). Le uniche richieste verso la politica statale erano volte a ottenere sostegno e tutela sotto forma di legislazione speciale. Cosa che, dalla fine dell’Ottocento in poi, si è saltuariamente realizzata, con esiti discutibili e perlopiù disastrosi già nel medio periodo.
Le posizioni più limpide e coraggiose, tra Otto e Novecento, emergevano soprattutto dalla cultura popolare e dall’ambito poetico. Grazia Deledda dimostrò sempre una certa sensibilità per la questione sarda, ma non poteva esserne un’interprete del tutto efficace, vista la sua estrazione sociale (apparteneva senza dubbio al ceto dei printzipales) e vista la sua formazione eminentemente letteraria. Diverso il caso di due nomi grossi della poesia sarda: Pepinu Mereu e Bustianu Satta. Con fortune e pubblici diversi, le voci dei due massimi poeti del periodo offrono un quadro articolato, colorito e piuttosto lucido delle condizioni materiali e delle profonde contraddizioni della loro epoca. Ma le voci dei poeti e degli artisti, come sempre, non sono le più ascoltate dalla politica.
Così, i grandi sommovimenti popolari di quel periodo non trovarono uno sbocco politico che li trasformasse in una forza storica capace di incidere nella situazione presente e nel futuro dell’isola. In risposta a questa ennesima manifestazione di vivacità politica popolare, emerse e si affermò egemonicamente la mitologia identitaria sarda, quella fatta di stereotipi degradanti alternati a stereotipi consolatori (e sedativi). Il mito dei sardi arretrati, barbarici, propensi alla violenza, riluttanti alla civilizzazione e però esotici, orgogliosi, forti, generosi trovò terreno fertile sui media dell’epoca e si fece strada nell’immaginario sia italiano sia sardo. La classe dirigente dell’isola non fece nulla per contrastarne la diffusione, anzi lo fece proprio.
Il mito identitario sardo indebolì la prima vera forma di politicizzazione della questione sarda (forse anche l’ultima, a quel livello): la nascita del Partito Sardo d’Azione. I vertici del movimento, poi costituitosi in partito nel 1921, erano non solo di estrazione sociale padronale e/o borghese, ma erano anche imbevuti di cultura italiana, col suo portato di nazionalismo “banale” e le relative mitologie. Benché cogliessero la distanza – storica e culturale oltre che geografica – tra la Sardegna e l’Italia e ne avessero sperimentato drammaticamente la consistenza nelle trincee della Grande guerra, non erano in grado di elaborare una risposta compiuta e politicamente efficace a questa condizione.
Emilio Lussu, come Grazia Deledda espressione di una élite locale votata all’integrazione nella più ampia élite sarda e poi italiana, non aveva gli strumenti concettuali per contrastare il mito identitario sardo e per contestare la relazione asimmetrica e penalizzante tra Sardegna e Italia fino a farne la base di una politica di riscatto. Camillo Bellieni, ben più consapevole e intellettualmente capace, aveva presente la natura del problema, ma subiva anch’egli il fascino della retorica nazionalista italiana (che pervadeva non solo l’ambito della comunicazione politica ma anche quello degli studi umanistici e giuridici), dunque si limitava a conclusioni politiche attenuate, poco coraggiose. La più lucida del gruppo dirigente sardista alla fine era Marianna Bussalai, purtroppo relegata dalla malattia a una condizione marginale e scomparsa troppo presto per lasciare una traccia più profonda.
Molto meno rilevanti di quello sardista erano l’ambito socialista e quello cattolico, più impegnati a difendere i propri confini dottrinari che a incidere realmente nella condizione materiale dell’isola. Eccezione – di peso, ma sempre eccezione – Antonio Gramsci. I suoi scritti sulla Sardegna restano forse le pagine più nitide e sincere, oltre che storicamente non reticenti, sulla vera natura della questione sarda, intesa come una questione “coloniale”.
Che il nodo da sciogliere fosse (e sia) innanzi tutto questa forma di relazione penalizzante e dai tratti coloniali (sul piano socio-economico, politico e culturale) è rimasto una sorta di tabù da allora ai giorni nostri. Chiaramente se ne è fatto interprete ed enunciatore soprattutto l’indipendentismo contemporaneo, da Antoni Simon Mossa in poi. Ma anche qui non sempre in termini chiari e politicamente spendibili.
Tuttavia, la responsabilità dell’elusione o della rimozione della questione sarda, nei suoi vari aspetti, resta in capo soprattutto al ceto intellettuale, alla classe dirigente e all’ambito politico. Nel corso di un secolo e mezzo, le istituzioni culturali, il ceto borghese e le forze politiche dell’isola hanno largamente accettato la situazione, ritagliandosi i propri percorsi di carriera, garantendosi condizioni di vita superiori alla media isolana, facendosi primi custodi dello status quo. Questa tendenza si è accentuata negli ultimi trent’anni, dopo la fine della Guerra fredda e la rimodulazione in forme conservatrici, neo-liberiste e neo-colonialiste della politica mondiale (specie occidentale). Se in molte parti del pianeta si è risposto a tale deriva con l’esplosione di fanatismi religiosi, con autoritarismi di ogni sorta e con la riduzione costante degli spazi di libertà e di possibilità emancipative, ma anche con tentativi più o meno creativi e utopici (si vedano alcune esperienze in America Latina o il confederalismo democratico di Oçalan, declinato nell’amministrazione autonoma della Siria del Nord, il Rojava), in un luogo come la Sardegna non c’è stata altra risposta che un ripiegamento feroce verso pratiche sempre più chiaramente anti-democratiche, sia da parte dei governi centrali sia da parte dei gruppi dominanti locali.
In questo scenario brilla di forza oscura il “tradimento dei chierici”, l’assenza di qualsiasi elaborazione teorica, politica, storica, sociologica in grado di fornire strumentazione concettuale e, all’occorrenza, personale politico all’altezza. Con eccezioni, va detto. Ma eccezioni che confermano la regola. Non a caso uno dei peggiori governi regionali della già poco entusiasmante storia autonomista è stato quello “dei professori”, con a capo (si fa per dire) Francesco Pigliaru.
L’egemonia culturale imperante nell’isola, lungo l’arco del Novecento e questo primo quarto del XXI secolo, ha sempre tenuto a bada la questione sarda, svuotandola dei suoi contenuti più problematici e rimpinzandola di diversivi e trappole concettuali. Dalla “autonomia” medesima (attenuata e trasformata in una forma di “coma farmacologico” politico), passando per costrutti come la “costante resistenziale”, fino all'”insularità in costituzione”, è stato un continuo succedersi di elaborazioni deficitarie o palesemente tendenziose, volte a rimuovere dal terreno il vero nucleo denso e pesante della faccenda: la condizione di subalternità e dipendenza indotte e imposte alla Sardegna nel corso di questi ultimi due secoli (e qualcosa).
Potrei citare decine di pubblicazioni – dagli studi letterari, alla storia, all’antopologia, alla linguistica – pesantemente inficiate da questa elusione o rimozione, rese perciò non solo parziali (se non proprio scorrette), ma anche inservibili o addirittura fuorvianti e dannose. E non dipende certo dalla mancanza di intelligenze all’altezza. È un fenomeno che andrebbe a sua volta indagato. L’ostilità o comunque l’indifferenza verso l’ambito degli studi post e de-coloniali ne è un elemento peculiare, che forse segnala anche un certo provincialismo diffuso, sistemico, nonché la mancanza (e la paura) di un confronto aperto a livello internazionale.
Quando il discorso della questione sarda emerge in forme non reticenti, una delle obiezioni più ricorrenti è che si tratti di una sorta di deresponsabilizzazione collettiva: diamo la colpa dei nostri problemi ad altri e all’esterno, così non dobbiamo preoccuparci di affrontarne le cause reali. Che è un pericolo che esiste, sia chiaro. la politica podataria sarda usa questo trucco infantile per sgravarsi dalle proprie evidenti mancanze. ma è un altro discorso. L’obiezione infatti vale anche per la auto-deresponsabilizzazione dei gruppi dirigenti, inclini ad attribuire ogni problema a cause fittizie, magari assunte come assiomi non meritevoli di spiegazione.
Come appunto l’arretratezza, di cui non si capisce mai cosa sia, quando emerga, quali ne siano le cause storiche, come si sia declinata concretamente nel tempo, ecc. Sembra che i mali della Sardegna dipendano solo ed esclusivamente da chi ci vive, dalle carenze della collettività sarda in quanto tale, da magagne ataviche non superate (intenzionalmente?). Si assumono i sintomi del disagio come cause dei problemi e non come effetto. Si sminuiscono costantemente i movimenti popolari, la cultura popolare, l’immaginario popolare come fenomeni senza rilevanza o addirittura pericolosi, dovuti appunto all’arretratezza e all’ignoranza (che è sempre quella altrui). Si derubricano le elaborazioni teoriche e politiche radicalmente alternative a manifestazioni di un pensiero naif o addirittura di intenzioni esecrabili.
Per un altro verso, sono sempre deboli o persino compiacenti, da parte delle istituzioni politiche e culturali, le reazioni alle tante, sistematiche, forme di repressione attuate dall’apparato di sicurezza dello Stato, così come alle dichiarazioni pubbliche di funzionari del governo o della magistratura di sapore non troppo vagamente razzista (“istinto predatorio”, “cultura del coltello”, “accoppiamenti tra consanguinei”, e via citando).
In questo quadro non stupiscono azioni a guardar bene vergognose come – per dirne una – l’accoglienza benevola e servile riservata di recente a Emanuele Filiberto di Savoia da parte dell’amministrazione cittadina di Cagliari. E non stupisce la mancata reazione all’imposizione della celebrazione dell'”unità nazionale” e delle forze armate in programma il 4 novembre sempre a Cagliari. Con tanto di presenza del Presidente della Repubblica italiana. Anzi, grandi espressioni di giubilo e di gratitudine. Peccato per quei facinorosi degli indipendentisti e degli anti-militaristi che qualcosa da dire al Presidente della Repubblica italiana e alle forze armate ce l’avrebbero. Infatti – coerentemente – se ne vieta qualsiasi manifestazione.
Al di là delle contingenze (non dimentichiamoci della campagna elettorale in fase di lancio), il problema della rimozione della questione sarda dal discorso pubblico, dal dibattito intellettuale e dagli orizzonti politici, con tutta la sua complessità e le sue ricadute concrete, è un ostacolo a qualsiasi pretesa di risoluzione dei problemi strutturali che affliggono l’isola. Se tali problemi non si inquadrano in modo corretto sia dal punto di vista diacronico (storico), sia sincronico (il momento attuale, con le sue crisi e le sue dinamiche locali e globali), sono impossibili da affrontare, prima ancora che da risolvere. E continueremo a subirne le conseguenze, fino al punto di non poter più fare niente per venirne a capo.