La negazione della subalternità, la normalizzazione del razzismo antisardo

Il caso Mesina riporta a galla, con una naturalezza che è già di suo significativa, l’attitudine alla razializzazione della comunità sarda da parte di tutto l’establishment politico e mediatico italiano e la sua interiorizzazione da parte delle persone sarde.

Non è solo una questione di toni e di parole, di un problema meramente comunicativo. Se si seguono le vicende giudiziarie e le modalità di impiego delle forze dell’ordine nell’isola, non solo negli anni bui dei sequestri di persona, ma ancora oggi, è lampante come alla base dell’approccio dello stato italiano in Sardegna ci sia una potente cornice razzista.

Ci sono almeno due livelli di gravità di questo fenomeno dalla natura schiettamente coloniale: 1) la normalità egemonica con cui vengono veicolati gli stereotipi razziali sulle persone sarde; 2) l’assimilazione e la reiterazione degli stessi stereotipi da parte della classe dominante isolana e – a cascata, in modo passivo – da parte di moltissime persone sarde.

L’ennesima cattura di Graziano Mesina è stata presentata dall’apparato repressivo di stato e dai mass media come un evento notevole, come un duro colpo a una fantomatica figura di super criminale, rappresentativa a sua volta di un ambiente umano di per sé criminogeno, prigioniero di un’arretratezza culturale e sociale che trascende il tempo.

A leggere o a sentire le cronache di questa banalissima azione di polizia sembrerebbe che sia stata sconfitta la mafia o una banda terrorista internazionale. E in effetti, per lo psicotico e ossessivo apparato di sicurezza statale nell’isola, Mesina era considerato un latitante pericolosissimo, a livello di Matteo Messina Denaro (il video relativo all’operazione, rilasciato dalle stesse forze dell’ordine, risulta grottesco, quasi ridicolo, per la sua stessa pretesa drammaticità).

Quindi, da un lato l’imposizione di un etichetta razziale che si estende dal singolo caso, enfatizzato a dismisura, a un’intera collettività umana. Dall’altro la riproposizione di cliché degradanti, ma in un certo senso rassicuranti, in quanto deresponsabilizzanti, come la fantasiosa considerazione di cui avrebbe goduto Mesina presso molte persone sarde, o la sua qualità di bandito del popolo, una sorta di Robin Hood in salsa barbaricina.

Sono tutte sciocchezze grossolane. Mesina è ed è sempre stato un piccolo delinquente di provincia, senza alcun afflato sociale e/o politico, su cui è stato costruito ad arte un mito mediatico. Nel suo stesso paese ha costituito più un peso e una fonte di problemi, che un motivo di vanto (ne avevo già parlato anni fa, qui).

Ciò non toglie che accanirsi su un quasi ottantenne come se fosse il capo dell’ISIS è assurdo. Per altro, anche nello specifico di questa vicenda si riconferma l’estrema tontaggine dell’apparato repressivo italiano in Sardegna, sviato e ingannato dagli stessi pregiudizi su cui si basa la sua azione. Mesina se ne è spesso fatto beffa. Anche in questa occasione, dopo la sua sparizione nel 2020, veniva dato in fuga in mezzo mondo, dalla Corsica alla Tunisia al Sud America, e invece era in un paese a poche decine di chilometri da casa sua.

Per altro, immagino che nel frattempo non abbia potuto fare il vaccino anti-covid, quindi non mi stupirei se gli attribuissero, come aggravante, anche quest’ennesima forma di esecrabile renitenza al buon vivere civile.

Battute a parte, tra i pregiudizi diffusi e l’ottusità razzista dell’apparato di sicurezza italiano esiste un collegamento diretto. È un circolo vizioso che si auto-alimenta. Perciò è tanto più urgente smascherarlo e smontarlo.

Per esempio, in uno delle migliaia di commenti su Facebook dedicati alla faccenda, una persona accennava sarcasticamente all’ospitalità concessa al latitante Mesina come alla manifestazione di un tipico tratto sardo. Alessandro Mongili ne trae questa amara riflessione:

La presunta “omertà” sarda è stata chiamata in causa sia sui mass media principali sia sui social. Anche questo un cliché di natura razzista, largamente abusato. Che si tratti di una attribuzione pretestuosa dovrebbe essere evidente a chiunque si soffermi a ragionarci su. Cristiano Sabino la liquida in questi termini (e non posso che concordare):

A fianco e a rinforzo di questo razzismo italiano ordinario, esiste ancora, come detto, l’altra gamba del problema, ossia l’adesione al nostro mito razziale di troppe persone sarde, specie nella classe intellettuale, nel ceto medio istruito, nei mass media e in molte aree politiche, ma inevitabilmente anche nel senso comune diffuso.

La fascinazione esotica e romanzesca del banditismo sardo, anch’essa frutto di letture eteronome e coloniali, si coniuga con la richiesta di una presa di distanza morale collettiva verso tali manifestazioni di inciviltà, considerate congenite alla nostra intera razza. Qualsiasi persona sarda dovrebbe chiedere scusa al mondo per via delle azioni di una di noi. È come quando si chiede a ogni persona musulmana sul pianeta di dichiararsi contraria al terrorismo jihadista, onde non essere accusata di fiancheggiamento o complicità. Tutto ciarpame razzista e coloniale, anche qui.

In realtà il primo nemico da sconfiggere è proprio l’auto-razzismo. L’auto-razzismo è peggiore del razzismo, perché impedisce di contrastarlo. Ed è una zavorra storica paralizzante, che rende difficile comprendere le dinamiche reali in cui siamo immersi, di reagire collettivamente in modo efficace ai problemi concreti, di promuovere un processo politico emancipativo di massa.

La radice dell’auto-razzismo, a sua volta, è la rimozione dalla visuale della nostra condizione di subalternità e dipendenza. Una condizione indotta e storicamente indagabile, non ancestrale e insuperabile. Senza una presa di coscienza profonda e diffusa su questo problema non sarà mai possibile nemmeno ipotizzare un percorso di riappropriazione democratica e di riscatto civile per la Sardegna. Questo, almeno i sedicenti esponenti progressisti e di sinistra dell’ambito accademico e intellettuale, dovrebbero avere l’onestà di riconoscerlo.

Lasciate in pace Gratzianeddu, insomma, e non infierite su di lui, simbolo di qualcosa che non ha mai voluto e che non è mai esistita, ma comodo capro espiatorio del paranoico dominio coloniale sulla Sardegna. E lasciate in pace soprattutto Orgosolo e Desulo, le cui comunità sono già più avanti dei loro detrattori – sardi e non – e hanno altro e di meglio a cui dedicarsi.

L’appello va rivolto prima di tutto a noi stessə. Decolonizziamo la nostra idea della Sardegna e delle persone sarde, liberiamoci una volta per tutte dell’apparato di stereotipi razziali che ci affligge da troppe generazioni, e reagiamo con maggiore dignità e uno spirito di rivalsa sano e propositivo alle ennesime, e temo non ultime, manifestazioni di razzismo anti-sardo. Sarebbe anche ora.

1 Comment

  1. Con la famosa “Notte di San Bartolomeo”, tra il 14 e il 15 maggio 1899, in cui lo stato italiano, con una repressione tipicamente nordica, credette si aver risolto definitivamente, con una terribile caccia all’uomo e «amigos e parentes, babbos e mamas cun fizos e fizas», (basta leggere” Caccia grossa di Bechi), la narrazione dello stato colonialista è stata presto smentita dai fatti successi negli anni del secolo successivo, di cui io stessa, data la mia età e la provenienza logudorese, sono stata ahimè spettatrice, spesso sconvolta dalla forza della repressione scatenatasi, come mai in altre regioni d’Italia, dove brigantaggio, banditismo e a volte altre forme di ribellione, sono state così etichettate. Oggi ci troviamo ancora una volta davanti agli stessi stereotipi, praticati e culturalmente accettati, d’intervento repressivo, che ci dicono solo che nulla è cambiato e che come ha ben detto, chi mi ha preceduta nell’intervenire in merito alla vicenda Mesina, dimostra ancora una volta che la cosa peggiore è il nostro atteggiamento “assorbente” e praticante la stessa mentalità del colonizzatore. Insomma smettiamo di essere, parafrasando Malcolm X, “sardi da cortile” e di vantarcene!

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