La mezza mattina dei morti viventi

A margine della vicenda “Carles Puigdemont in Sardegna”, dopo l’adunata pan-indipendentista di domenica 26 settembre, si anima un minimo il dibattito sulla condizione e le prospettive del movimento autodeterminazionista e indipendentista sardo.

Malgrado i toni e l’enfasi con cui, nel corso dell’incontro di domenica 26, molte persone intervenute hanno parlato di unità e di ritrovato spirito di convergenza, i commenti fin qui sono stati tutt’altro che unanimi e concilianti.

Preciso subito che io ero presente al raduno oristanese come delegato del gruppo di studio e ricerca Filosofia de Logu, quindi in una veste di auditore, non certo da militante politico (che non sono più da anni).

Nondimeno, da ex attivista, non potrei sentirmi, anche volendo, estraneo al movimento, se non altro perché di tutte le persone presenti a Oristano conoscevo personalmente, per una via o per l’altra, la quasi totalità. Il che non mi ha spinto a salutarle tutte.

È stupefacente la capacità degli indies sardi di ignorarsi, pur conoscendosi benissimo, anche stando nello stesso luogo contemporaneamente, magari a pochi centimetri di distanza. È uno dei pochi talenti che si maturano facilmente nella militanza attiva indipendentista. Non me ne tiro fuori, sia chiaro: io stesso ho salutato chi volevo salutare e ignorato chi volevo ignorare (cordialmente ricambiato).

Senza che nessuno se ne stupisse o cercasse di evitarlo, la vagonata di retorica irenista e riconciliatrice è svaporata appena è finito l’incontro ufficiale. Come era immaginabile.

Non è nemmeno un grande male: per fare politica, anche per fare politica insieme, non è necessario essere legati da amicizia e nemmeno da buoni rapporti personali. Se capita, bene; se non capita, forse anche meglio, dopo tutto. Ma chiaramente qui si manifesta anche un annoso problema di incapacità di superare i conflitti personali e/o politici.

Uno dei tratti imbarazzanti dell’indipendentismo nostrano è che nel tempo si è via via sempre più condensato per gruppi, per clan, a volte per parentele (di sangue o acquisite). Una modalità più vicina a quella di certe organizzazioni criminali, che a quelle di una politica davvero popolare, democratica e delegabile. Per questo ogni conflitto, ogni rottura, in questo ambito, acquista subito i tratti di una inimicizia, più che quelli del dissenso sul piano ideale e/o pragmatico.

Alessandro Mongili, presente, come me, in qualità di delegato di Filosofia de Logu, scrive (su Facebook):

Gruppi familistici, amicali, o entrambe le cose (fra amici di una vita, spesso, se non si hanno alternative, si combinano noiosi ma duraturi matrimoni), oggi womanwashed in quantità ma non sempre in qualità, hanno vagamente parlato di “unione” o di “confederazione” di movimenti, partiti, associazioni, che a tutto assomigliano fuorché a strutture minimamente organizzate e con contatti, anche episodici, con il resto della Sardegna.

Temo che sia una descrizione calzante.

Non voglio però far finta di non entrarci per nulla, di non essere stato parte attiva del movimento indipendentista. In questo senso, mi faccio carico della mia dose di responsabilità. E tuttavia, la prospettiva indipendentista e autodeterminazionista mi appare ancora oggi, nonostante tutto, una delle poche istanze di emancipazione e democrazia presenti e operanti in Sardegna.

D’altro canto, il panorama intorno è desolante.

La classe intellettuale per così dire istituzionale ha visto bene di disertare totalmente la vicenda Puigdemont, senza degnarsi non dico di fare uno sforzo di analisi (quando mai!), ma nemmeno di prendere posizione. Si è limitata a pararsi dietro le parole – confuse, a tratti inaccettabili – di Marcello Fois, sulla Nuova di domenica, mandato un po’ allo sbaraglio su un terreno che non gli è familiare. Gli altri, scena muta: non c’erano e se c’erano dormivano.

L’intera galassia di gruppetti, clan e reti di complicità del centrosinistra italiano in Sardegna, PD in testa, si è addirittura fatta superare in termini di solidarietà e senso democratico da personaggi altrimenti più che discutibili del (presunto) schieramento avverso. Qualcuno si meraviglierà; io no, sinceramente.

Tenta un’analisi Vito Biolchini, da giornalista che segue la politica da molto tempo. Rilevo con piacere un’apertura diversa dal passato verso il grande ambito dell’indipendentismo sardo; forse un po’ in ritardo e con qualche incrostazione dura a sciogliersi, qualche residuo fraintendimento. Ma va bene uguale.

Tra i punti da lui elencati nella sua disamina, a proposito di ciò che dovrebbe fare (o non fare) l’indipendentismo, Biolchini segnala come decisivo l’impegno a livello locale, nei comuni. Posso dire questo: benvenuto nel club. Ne parliamo (anche qui) da anni e tutto sommato va detto che qualcosa si è mosso e continua a muoversi, in questo senso. Prova ne sia l’esistenza stessa di un’entità come Corona de Logu, ospite ospitante dell’incontro col presidente Puigdemont.

Non è una faccenda di poco conto, questa dell’esistenza di un’associazione degli amministratori e delle amministratrici locali che si rifanno alla prospettiva autodeterminazionista. Parlandone, già diversi anni fa, con esponenti politici catalani, uno degli aspetti su cui insistevano sempre era la quantità (oltre che la qualità) delle persone indipendentiste elette nelle istituzioni, a cominciare da quelle locali. Quando rispondevo (rispondevamo) che erano poche e che non esisteva niente di istituzionalmente rilevante nel movimento indy, ci rimanevano male. Oggi questo aspetto è mutato e non poco. Significa che, a dispetto di tutto, e a volte delle stesse sigle indipendentiste, non siamo statə fermə.

Biolchini attribuisce al mondo indy la scarsa capacità di fare i conti con se stesso, di non comprendere i propri errori, e su questo da un lato, in molti casi, ha pienamente ragione (visto il parterre di ieri a Oristano), ma ha anche parzialmente torto quando mette tutto quanto nel medesimo calderone, per esempio quando accomuna esperienze diverse e di diverso esito come le partecipazioni elettorali della coalizione Sardegna Possibile nel 2014 e quella di Autodeterminatzione tra 2017 e 2019.

Su questo punto, comunque, è vero che le analisi e la stessa cronaca di quelle esperienze sono state lacunose, se non assenti. Circa Sardegna Possibile 2014 spero di poter colmare presto la lacuna – sia pure con un resoconto e un’analisi “dall’interno”, quindi coinvolta – con un libro di prossima uscita. (Fine spazio promozionale.)

Gli interventi delle delegazioni invitate domenica al cospetto di Carles Puigdemont sono stati per lo più deboli, senza alcun afflato, senza contenuti non dico nuovi e avanzati, ma spesso nemmeno dignitosi. A volte la situazione ha sfiorato quello che nel gergo giovanile attuale viene definito cringe.

A dirla tutta, la palma del peggiore, per distacco, va data al rappresentante del PSdAz, Andrea Cocco. Già il fatto che fosse presente il PSdAz, a mio avviso, costituisce motivo di pesante imbarazzo. Il fatto che il suo delegato sia intervenuto e abbia detto ciò che ha detto, per quanto mi riguarda è solo la conferma che da quella parte lì non potremo mai aspettarci nulla di buono e sarebbe il caso di farci i conti una volta per tutte.

Il discorso del rappresentante sardista ha inanellato una sequela di topiche difficili da ritrovare, tutte insieme, in un solo intervento fatto da una persona che svolge un ruolo pubblico: dalla rivendicazione della fondazione, proprio a Oristano, del partito, cento anni fa (un secolo portato malissimo), all’evocazione del sangue versato sul Carso per l’Italia (ancora? e cosa ci sarebbe da vantarsi?), alla presunta necessità di superare le differenze tra destra e sinistra e le varie posizioni ideologiche, in nome di una pretesa unità di intenti (detto da chi è alleato con l’estrema destra nazionalista e padronale italiana), fino al capolavoro di tirare in ballo l’EFA (o ALE), il gruppo politico transnazionale che a Brixelles rappresenta le minoranze linguistiche e i popoli senza stato. Se è vero che il PSdAz figura tra i soci fondatori, è altrettanto – e drammaticamente – vero che il PSdAz ne è stato sbattuto fuori con ignominia l’anno scorso, per la sua alleanza inaccettabile con la Lega. Una figura pessima, quella di Andrea Cocco, che per altro ha occupato molto più tempo del dovuto, togliendo infine la parola ad altre delegazioni (come Caminera Noa, o la stessa Filosofia de Logu, che pure era lì in una veste non strettamente politica).

Si possono salvare dalla generale mediocrità provinciale e autoriferita giusto una manciata di interventi. Quello di Claudia Zuncheddu, che se non altro ha parlato di ambiente e salute, temi di indubbio rilievo, e quelli di Lisetta Bidoni per il Coordinamento Intersezionale (forse la più interessante novità del panorama politico sardo attuale) e di Stefano Puddu Crespellani (in catalano) a nome di Sardegna Possibile.

Non intendo infierire sulle altre persone intervenute, anche perché molte erano visibilmente emozionate e alcune hanno semplicemente rivolto un saluto, senza tanti fronzoli (grazie!). Non tutto è stato ugualmente imbarazzante e non tutti gli interventi sono stati pretenziosi e fuori luogo. Solo, per lo più, inutili, di poco spessore. Non è nemmeno giusto mettere tutte le delegazioni presenti sullo stesso piano. A dispetto di una certa aria da “vogliamoci bene” che aleggiava sull’incontro (almeno fino a che la seduta non è stata tolta, come dicevo più sopra), il panorama era davvero eterogeneo e difficile da ricondurre a sintesi, tra chi ha fatto pura e semplice militanza per anni e chi ha avuto incarichi pubblici; tra chi ha stretto patti con quasi tutti i diavoli e chi può vantare una coscienza tutto sommato pulita.

A scanso di equivoci, non credo che, di mio, sarei stato in grado di fare chissà quale discorso. Per non sbagliare, non sarei comunque intervenuto.

Nell’insieme, l’impressione che ho ricavato io dall’adunata è che là dentro fossero presenti sostanzialmente dei “morti viventi”, senza grandi connessioni con la realtà storica sarda attuale. L’esito poco costruttivo dell’evento non è solo responsabilità loro, di chi è stato invitato. Senza voler dare giudizi troppo liquidatori e troppo severi, forse l’intera circostanza andava gestita diversamente. Ostinarsi a considerare le sigle e i clan indipendentisti, tutti, indistintamente, come qualcosa di realmente esistente, vitale, rappresentativo, è un intento magari anche generoso ed ecumenico, ma inutile, se non dannoso.

Perché invece non invitare rappresentanti di associazionismo civico e culturale, di organizzazioni dei lavoratori e del mondo economico, perché non arricchire la platea (e gli interventi) con qualcosa di vivo e reale, al di là delle auto-rappresentazioni e delle sterili rivendicazioni identitarie? C’è molto più indipendentismo e autodeterminazinismo democratico fuori dalle formazioni più o meno organizzate che dentro di esse, per come la vedo io. Magari a volte si tratta di posizioni e di sensibilità inespresse, implicite, non perfettamente chiare, disorganizzate; ma ci sono. Chi le intercetta? E chi ha intenzione di farne una forza popolare e democratica di peso?

Alla fin fine, credo che le parole più giuste sull’intera questione siano quelle dette (domenica) e scritte (oggi, il giorno dopo) da Maurizio Onnis, presidente di Corona de Logu:

Carles Puigdemont non è un re taumaturgo medievale. Vederlo, parlarci, toccarlo, non risolve i problemi dell’indipendentismo sardo e gli indipendentisti lo sanno. Poi: sardi e catalani non sono la stessa cosa. Sappiamo anche questo. Tuttavia, incontrare un personaggio di tale caratura è senz’altro un’esperienza importante, che induce a fare confronti, riflettere, migliorarsi. Passata la giornata di domenica, resta il nocciolo della questione: lavorare sul terreno perché l’ambizione di autodeterminarsi si diffonda tra i sardi, divenendo appannaggio di molti. E questo, questo sì, è un compito che tocca tutti, dal quale nessuno è esente e svolto il quale possiamo davvero dire di aver fatto la nostra parte. Dare l’esempio in ogni ambiente, con parole, atteggiamenti, soprattutto azioni virtuose. Governare i municipi in modo efficiente, trasparente, condiviso. Organizzarsi per fare politica da professionisti. Studiare, per afferrare l’essenza di ogni problema e ipotizzarne soluzioni coerenti. Comunicare puntualmente. Essere concreti, non sfarfallare. Pensare in grande, non avere paura. Quando appare utile, intrecciare i percorsi delle diverse sigle, senza farsi prendere dall’ansia dell’unità a ogni costo. Accettare il fatto che le elezioni sono una tappa irrinunciabile, ma non definitiva: c’è un prima e un dopo, in cui si deve comunque costruire.Questo è quello che dobbiamo fare, se vogliamo che alla prossima visita Puigdemont (o chi per esso) trovi un movimento indipendentista sardo maturo e pronto.

Ecco, proviamo a darci questo compito: essere più concreti e realistici, più onesti intellettualmente ed eticamente, senza rinnegare diversità e pluralismo (che è un bene, ricordiamolo). Il processo di autodeterminazione democratica non avrà successo solo perché è giusto, ma anche e forse soprattutto se saprà essere credibile come via maestra per assicurare alle generazioni sarde presenti e future una vita migliore.

Se ci allontaniamo da queste coordinate minime, a poco varranno grandi discorsi, slogan, bandiere, ambizioni personali. Sarebbe importante che i primi e le prime a trarre qualche lezione da ciò che è successo domenica a Oristano fossero proprio le persone presenti. La gente di Sardegna saprà apprezzare proposte politiche serie, non banalmente autoreferenziali, più vicine ai propri bisogni, più desiderabili. Bisognerà essere all’altezza del compito, in qualche caso anche solo facendosi da parte.

14 Comments

  1. Terribile! Quanta differenza tra la tua valutazione e i resoconti più o meno ufficiali. Quanto realismo nelle tue parole. E quanta distanza tra mondo reale e mondo autoproclamato. Da tempo mi sono allontanato da questo tipo di militanza ( a cui avevo creduto per poco, anche forse con illusione forte) per fare altro ed occuparmi delle cose che credo di saper fare, non di tuttologia.
    Tenes resone meda, si no si mudant sas maneras de aperrere sos ocros e sas origras (Puigdemont at nadu chi b’at bisongiu de ascurtare sa zente) no si mezorat in nudda.

  2. Est beru in cue bi aiat motos biventes e unu mortu motu, su giornalista chi at iscritu custu articulu su cale mustrat de non ne cumprendere nudda de indipendentismu e de ne cumprendere meda de dipendentismu. Pro fortuna est dae meda chi amus postu s’impermiaile pro su ludu chi nos benit ghetadu a supra. Si custa est s’istampa sarda da semus a frores. Intantu su giornalista no at tentu contu chi sos delegados ant ischidu unu quartu ora prima de debere intervenire. Agiungo chi forsis a s’articulista li cumbenit a allatare a diversu sos neurones prima de iscriere ca mi paret chi non bi apat cumpresu nudda e at iscatenadu sa preventzione benenosa chi teniat in corpu. Pro li dare un’idea de ite est istadu cussu atobiu cheglio citare sas paraulas Maria Maddalena Agus, sindaca de Ortzai e dirigente de SNI, “Da questo incontro ho capito che un’alternativa è possibile, che sta succedendo qualcosa di speciale dal quale può nascere non solo una nuova Europa, quella dei popoli, ma anche una nuova interrelazione tra collettività e tra persone, una nuova scala di valori nella quale i valori valgano in quanto tali e abbia ai primi posti i diritti base di ciascun individuo senza distinzioni di qualunque tipo.”

    1. Una cosa non l’apo cumpresa, Bustianu: chie balla est custu giornalista chi as mentovadu? S’ùnicu chi b’est in su post meu est Vito Biolchini, ma a cuntestare su chi iscriet issu depes andare in su zassu suo, no inoghe.
      E custu est unu contu.
      Un’àteru contu est sa manera de nàrrere sas cosas e de torrare respustas a sas crìticas. Deo non nd’isco nudda, ma apo s’impressione chi sa manera chi as tentu tue no est sa mègius de custu mundu. Forsis a bortas est mègius a meledare un’iscuta de prus, in antis de si pònnere a iscrìere.
      A àteros annos.

  3. Grazie Omar, il tuo sguardo su questo evento porta a molte riflessioni sullo stato di salute dell’indipendentismo (che è in effetti un miscuglio non troppo bene amalgamato di tante cose). A mio avviso è parecchio rilevante la scarsità di interventi interessanti, mi pare di capire che i migliori siano arrivati perlopiù da militanti che non ricoprono cariche pubbliche …e questo è un dato sul quale non possono che portare miglioramento gli sforzi proposti dal sindaco Onnis, che tu citi.
    È verissimo comunque che rispetto anche a solo qualche anno fa, l’impegno strategico del partire dal basso, dalle amministrazioni comunali, sta rendendo più tangibile e vicina a più persone la spinta indipendentista, sono fiduciosa che cresca la coscienza di popolo.

  4. Omar, grazie della tua riflessione.
    Scrivo senza essere stata presente all’evento per il quale non avrei avuto titolo per partecipare, essendo solo un’elettrice indipendentista (gli elettori non sono una platea da considerare per questo mondo indipendentista) e non avendo “clan” di riferimento all’interno, se non una simpatia esplicita per Sardegna Possibile che, ancora oggi, marca la differenza con le altre sigle presenti all’evento, ma purtroppo è accomunata ad esse per lo scarso peso elettorale.
    Concordo con la tua analisi sui morti viventi, in particolare con questa affermazione: “Ostinarsi a considerare le sigle e i clan indipendentisti, tutti, indistintamente, come qualcosa di realmente esistente, vitale, rappresentativo, è un intento magari anche generoso ed ecumenico, ma inutile, se non dannoso.” E vado oltre a connotare i morti viventi.
    Ho osservato il palco, le prime file e la platea nel suo complesso attraverso le foto e ho notato ciò che vado dicendo da tempo: l’indipendentismo è un mondo di uomini, di protagonismo essenzialmente maschile alla stessa stregua del mondo dipendentista che allarga i gomiti sulle donne. Non è una novità in politica come nella società ma fa particolarmente male che in un movimento variegato di autodeterminazione la questione della disparità di genere sia così lampante. Quale autodeterminazione dei popoli può fondarsi su contributi prevalenti di un solo genere? Mi si dirà che “ha pure parlato Tizia”, “che c’era pure Caia a fare le foto con Puidgemont”. Qui conta non quell’ “anche”, ma “al pari di”. E conta pure il colpo d’occhio, come lo diamo sui sei direttori di facoltà tutti uomini, come lo rileviamo per i convegni sulla violenza di uomini sulle donne tenuti da soli uomini, come lo notiamo nella delegazione tutta al testosterone di una componente politica in consultazione governativa. Non si tratta di mettere figuranti donne nel palco o nelle prime file, ma di favorire un serio e profondo processo di emersione del protagonismo femminile e di restituirlo anche visivamente, con regole del tipo che nel palco ci stanno donne di rilievo e non solo uomini; se ci sono due delegati per formazione all’evento che siano una donna e un uomo, non solo uomini. E vale anche per Filosofia de logu, sia chiaro, perché io fatico a credere che non ci siano donne in grado di contribuire in tema di autodeterminazione o decolonizzazione del pensiero e della pratica. Tra le tante cose che hai segnalato dei morti viventi aggiungo che erano maschi morti viventi.
    Senza il fattivo contributo femminile, l’autodeterminazione è una scatola vuota.

    1. Grazie, Rita.
      Il problema che sollevi è reale e nell’ambito indipendentista, almeno da qualche parte, ce lo ponemmo già anni fa. Ora io non faccio più militanza da tempo, perciò non so che dinamiche si siano sviluppate in questi ultimi anni. A naso mi pare che la situazione sia migliorata, in realtà. Certo, si può fare di più. I tuoi rilievi sono stati posti anche domenica mattina, quindi non è che non siano in agenda. Poi, chiaramente, sta a tutte le persone impegnate in politica e/o in attività intellettuali farsene carico, ognuna per la sua parte.
      Circa il rimprovero specifico a FdL, devo dire che, nel nostro caso, oltre ad essere il nostro un gruppo molto composito ed eterogeneo, con una ormai consistente partecipazione femminile, la scelta dei delegati è stata dettata esclusivamente da circostanze contingenti e di ordine pratico. Il tema dell’autodeterminazione e della decolonizzazione declinato anche come problema di asimmetria di genere fa parte integrante dei nostri punti fondanti (come si evince dai nostri documenti fondativi). Un richiamo ad una maggiore attenzione, comunque, non fa mai male.

  5. L’incapacità di superare i conflitti personali rappresenta uno dei nostri maggiori problemi. Pensando al fatto che a tutt’oggi non tocchiamo palla (a livello di Potere) risulta perfino inquietante.
    In futuro, spero non si rinnovi l’esperimento della “(dis)organizzazione delle (dis)organizzazioni”, e certo lontano non andremo con una manciata di consiglieri sparsi qua e là per la nazione, senza una linea condivisa, linguaggi e simboli comuni, fondamentalmente una formazione e organizzazione politica.
    Vogliamo essere maturi, attivi, ambiziosi, giocare al gioco della politica e contare qualcosa? Occorrerebbe fondare un partito dalle idee chiare, il cui posizionamento fosse facilmente identificabile, il quale si preoccupasse di formare i/le 16-18enni, parlasse spesso e volentieri con voce femminile, assumesse posizioni radicali sulle grandi questioni. Sarebbe bene darsi un orizzonte di tempo adeguato, celebrare un congresso fondativo, presentarsi alle elezioni nazionali solo se realmente pronti – oppure avanti con le successive occasioni, che in Sardìnnia non mancano.
    È altresì giusto che chi lo desiderasse si tenesse la sua sigla (altrimenti detta non-partito). Perché: o la finiamo di ammirare i modelli or-ga-niz-za-ti-vi catalani, scozzesi etc. per imparare mai -, o ci meritiamo un presidente del Consiglio Coloniale apparecchiare il tavolo (nell’indifferenza) di Puigdemont, coi Quattro Mori ri-orientati verso i nuovi padroni a Est.

    1. Luca, in astratto tutte e tutti noi sappiamo benissimo cosa fare. Spesso, sempre in astratto, le ricette proposte sono analoghe o sovrapponibili. Ma il problema non è astratto e non c’entra nemmeno tanto la questione delle diatribe personali. Queste diventano decisive e paralizzanti perché manca una base sociale e culturale solida, diffusa, capace di alimentare e sostenere continuamente una proposta politica che non sia mera emanazione coloniale di organizzazioni e gruppi di potere esterni e dei loro delegati o complici in Sardegna, ma la loro controparte.
      Perché si formi e progredisca tale base sociale occorre un lavoro lungo, che va oltre le campagne elettorali e al contempo non ne può prescindere. È una situazione molto complicata. Fondare un nuovo partito avrebbe senso solo se ci fossero le condizioni che lo richiedessero. Non puoi pensare di fondare un nuovo partito *e poi* provare a creare le condizioni per il suo successo.
      Bisogna imparare a giocare con le carte che si hanno, nelle condizioni date, in attesa di chiudere questa mano di gioco e cominciare quella successiva con carte migliori.
      Ciò significa che va fatto di tutto per mettere insieme le forze più sane e consapevoli, a distanza di sicurezza da egoismi, carrierismi, opportunismi e trasformismi, con obiettivi chiari, un orizzonte di riferimento, sia temporale sia pragmatico, una formula organizzativa snella e aperta, di tipo confederale. Va bene anche una sorta di coordinamento nazionale tra sigle, associazioni, comitati, mondo sindacale. Non tanto e non solo per preparare le elezioni, ma prima di tutto per cercare di non sprecare le energie, non sovrapporsi, non giocare ognuno il suo piccolo gioco solipsistico. Un coordinamento che funzioni da sede di scambio di informazioni e da ammortizzatore di conflitti. Chiaramente fondato su un patto politico di mutuo rispetto, di lealtà e di chiara discriminante democratica. Ossia antifascista, antirazzista, sensibile e partecipe alle istanze di liberazione di qualsiasi tipo, prima di tutto a quelle femministe, con una posizione netta sulle questioni ambientali e, naturalmente, orientato a un percorso democratico di autodeterminazione. Non è nemmeno necessario che tutte le componenti la pensino allo stesso modo su tutto.
      Ecco, questa cosa si può fare anche con una certa rapidità.
      Una cosa importante sarebbe che chi ha già fatto il suo, chi è in politica da anni e ha già dato quello che poteva dare, lasci lavorare gli altri e le altre, mostri un minimo di generosità e di consapevolezza democratica. Tanto più se si è compromesso con scelte politicamente discutibili, che per altro non hanno portato alcun avanzamento nel processo di autodeterminazione, ma caso mai lo hanno fatto arretrare.
      Con tutto questo vanno fatti i conti. Non in termini di autocritica, quanto in termini di realistica presa d’atto della realtà. Dalla comprensione delle dinamiche deve nascere un necessario allargamento della partecipazione e una più ficcante azione politica in tutte le nostre comunità. Avere degli amministratori locali, in questo senso, è decisivo. Là si gioca una partita strategica e là andrebbero investite molte energie e sperimentate nuove forme organizzative.
      Sono cose già dette, mi rendo conto, ma non per questo cessano di essere valide, a mio avviso. Domenica scorsa c’è stata una sorta di celebrazione auto-consolatoria del passato. Ora è opportuno guardare avanti.

  6. Innanzi tutto, ti ringrazio della risposta.
    Un partito nuovo non lo fonderai domani, ma ci si potrebbe arrivare gradualmente, organizzando incontri di formazione e di discussione mirati. Dovremmo abbandonare discorsi del tipo “speriamo quello si faccia da parte” (ognuno è padrone in casa propria), sostanzialmente lasciar perdere il nostro passato.
    A proposito di aderire alla realtà, nei tuoi interventi insisti spesso sul carattere imprescindibile di Stati e impalcature istituzionali varie (almeno negli anni avvenire). Ecco: modelli organizzativi alternativi o per meglio dire sperimentali meritano rispetto e attenzione, ma gli anni passano, stiamo messi male e ci ostiniamo nel non voler colmare la distanza dai vari partiti unionisti, centralisti, padronali.
    E dire che la nostra Casa l’avremmo già: il gruppo Greens-EFA(-Pirates). Lì dentro c’è tanto di quanto condiviso/condivisibile da militanti, ci sono quei contatti che tanto potrebbero insegnarci e sostenerci nel futuro. Senza tacere gli entusiasmanti passi avanti fatti al Nord da giovani partiti progressisti, spesso guidati da donne (specialmente in ambito extra-UE). Occorrerebbe dunque qualcosa di nuovo e di definito, di veramente Europeo (in riferimento al continente tutto, se la geografia non disturba troppo), al fine di coinvolgere i nostri connazionali sparsi per il mondo.
    Spirito di sacrificio – forse più importante di una paralizzante pax di facciata -, necessità assoluta di internazionalizzare la Causa, concreta solidarietà/vicinanza/aiuto verso i partiti a noi affini (non dovremmo tollerare la commissione UE del 2021 zitta dinnanzi a prigionieri politici all’interno dei propri confini). Insomma, per il momento non avremmo le risorse, eppure gli ideali e la creatività certo non mancano. Ma la volontà?

    1. Non amo particolarmente la forma-stato e in linea teorica sono più propenso a una concezione confederale, magari calibrata sulle realtà concrete dei veri territori e delle varie comunità umane, in termini sanamente materialistici. Oggi tuttavia la forma-stato ancora domina, bisogna farci i conti, magari in termini dialettici.
      Detto questo, credo che sia tu sia altri osservatori scontiate una certa mancanza di informazioni e il brutto vizio dell’indipendentismo di fare le cose “a cua”. Un po’ per timore (non sempre ingiustificato), un po’ per settarismo.
      L’EFA (o ALE, d cui per altro ho parlato più di una volta anche qui) è senz’altro un punto di riferimento, a livello europeo. la partecipazione sarda a tale gruppo politico è stata a lungo monopolio del PSdAz, tra i fondatori. Da alcuni anni la sua presenza non era più gradita, soprattutto per mancanza di apporti significativi e forse anche per altre magagne. Lo sentii dire già nel 2014 da Jordi Solè, rappresentante catalano nell’EFA. Insomma, la posizione del PSdAz era sub judice e questo però non consentiva di avere una diversa rappresentanza della Sardegna in quel consesso. Ora, come sappiamo, il nodo è stato sciolto con l’espulsione (alquanto ignominiosa) del PSdAz, in seguito alla sua alleanza organica con la Lega. È in corso un tentativo di ripristinare una rappresentanza sarda nell’EFA, con la mediazione del gruppo Autonomie e Ambiente, costola italiana dell’EFA medesima. È stata incaricata della mediazione Lidia Fancello, sardista di lungo corso. Scelta a mio avviso non proprio indovinata, dato che si tratta di persona piuttosto estranea al movimento indipendentista sardo, di cui sa poco e solo dall’esterno. Ci sono anche ambizioni particolaristiche per accaparrarsi in via esclusiva il posto nell’EFA, a dispetto del tentativo ecumenico di Lidia Fancello, che invece dovrebbe favorire una sorta di consulta indipendentista la quale a sua volta esprimerebbe la delegazione presso l’EFA. Non so a che punto siano le trattative.
      Io avrei preferito che fosse Corona de Logu a inviare una sua delegazione all’EFA, sia per la sua natura già in partenza plurale, sia perché si tratta di un’associazione di amministratrici e amministratori, quindi di persone che hanno responsabilità pubbliche e che hanno una legittimazione democratica. La cosa è rimasta sul tappeto per un po’, non so se ci sia ancora. L’ostacolo, a quanto ne so, è la natura non partitica di CdL.
      Questo è quanto. Attendiamo sviluppi. Certo un collegamento stabile e strutturale con la politica europea, non solo a livello bilaterale (sardo-catalano, sardo-corso, ecc.), è necessario. Non possiamo più permetterci che a mediare tra le questioni aperte relative all’isola e le sedi decisionali sia lo stato italiano o la politica coloniale sarda.

      1. Omar, come vedi la natura partitica dell’organizzazione rimane una discriminante (per ora).
        Ovviamente ero al corrente dell’umiliante cacciata del PsdAz, ma non lesino critiche al gruppo Greens-EFA(-Pirates), specialmente per il trattamento riservato a Puigdemont. Però, te la dico così: coi sardisti dovremo aver a che fare ancora per molto tempo. Hanno la storia e sa cadira dalla loro parte. Sta a noi desardistizzare democraticamente la politica nazionale.
        Quanto a certi maneggi in quel di Bruxelles e Strasbourg, non vedo come ciò dovrebbe preoccuparci. Perché, piuttosto, non facciamo attività extra-parlamentare e ci battiamo per cambiare la legge elettorale europea? Sì, quella che da anni ci penalizza, a vantaggio dei fratelli (mediterranei) siciliani.
        Mettiamo pure che non si colga l’obiettivo in questa legislatura italiana, ma quanto potremmo crescere come consapevolezza (diffusa)? Credo altresì che potremmo trovare una brillante candidatura indipendentista per le Europee 2024. Fai eleggere uno/a dei nostri, e vedrai come si schiuderanno le porte di EFA! E come i compagni di pensiero di ERC saranno felici di accoglierci, di parlare lo stesso linguaggio.
        Abbiamo il tempo per organizzare tutto questo. Sta a noi farlo.

        1. Luca, usi un “noi” che per quanto mi riguarda ha contorni molto incerti. Chi sarebbero questi “noi”? Io non faccio parte di alcuna organizzazione politica da anni. Il mio impegno è di natura diversa.
          Col PSdAz non solo non dovremmo avere nulla a che fare oggi e da tempo, ma penso anche che ormai dovremmo serenamente considerarlo una controparte, un elemento costitutivo dell’apparato di potere coloniale contro cui ogni sincero/a democratico/a sardo/a dovrebbe battersi. Salvo clamorosi ribaltamenti al suo interno (che tenderei ad escludere), la situazione è questa.
          Circa la questione del collegio elettorale per il Parlamento europeo, la questione è già presente a livello istituzionale. Di ieri la notizia che la stessa Regione Sicilia sarebbe favorevole a una separazione della Sardegna. Non è esattamente una battaglia di avanguardia, ora come ora. Va seguita, chiaramente. Ma avremmo bisogno di elaborare altre opzioni, più avanzate e più lungimiranti, almeno come orizzonte di riferimento nei rapporti internazionali.
          Sia come sia, queste sono chiacchiere tra due persone che non fanno attività politica. Vanno benissimo e possono servire a chiarire punti, equivoci, circostanze. La discussione in Sardegna è sempre troppo immatura, non sempre e non solo a causa dell’uso compulsivo dei social media (che a mio avviso dovrebbero essere propri banditi dal novero degli strumenti di dibattito politico). C’è poco impegno a studiare e a dotarsi di strumenti concettuali e di analisi utili, aggiornati. C’è troppo settarismo e poca attitudine alla mediazione e alla ricerca delle soluzioni pragmatiche. C’è anche poca chiarezza sulle posizioni reali e sugli obiettivi. C’è poi un drammatico scollamento tra l’ambiente indipendentista e le dinamiche reali della collettività sarda di oggi. Su questo, non mi pare di intravvedere segnali di resipiscenza. Noto invece, con scoramento, pulsioni nostalgiche ancora più settarie, istanze meramente identitarie, autoreferenziali, dogmatiche, essenzialiste. Non va bene, secondo me. Non porta da nessuna parte. Non mi interessa e non ho nessun obbligo di farmi piacere questa deriva. Confido che ci sia anche dell’altro, in campo. Non partiamo da zero. Con un po’ di buona volontà e di generosità si può rilanciare un percorso democratico, popolare, sardo-centrico ma non esclusivo e chiuso in se stesso. Più che proporre ricette strategiche epocali e pretendere che tutti gli altri e tutte le altre vi si adeguino, credo sia più proficuo mettere a disposizione di un percorso di questo genere ciò che si sa e ciò che si sa fare. E tenere alta l’asticella della consapevolezza e del senso critico.

  7. In quel “noi” includo chiunque condivida battaglie giuste pro sa Sardìnnia. Considero l’impegno politico e quello culturale facce della stessa medaglia: senza studiare andiamo da nessuna parte. Allo stesso tempo, credo vadano individuati nuovi “contorni”. Partitici, competitivi.
    Prendo atto tu voglia starne fuori(?), ma in futuro consiglierei di non perseverare nell’errore “Elezioni 2014”: marginalizzare chi sia convintamente indipendentista, edulcorarne messaggi e ideali (“ché gli elettori si spaventano”, qualcuno disse), intaccando quel collante che – nonostante tutto – lega ancora tanti compagni di pensiero. Si può dire questo (per poi tornare ad abbracciarsi), o dobbiamo continuare a guardarci in cagnesco?
    A Oristano, forse hai semplicemente visto persone stanche che – nonostante tutto, lo ripeto – erano lì a dar sostegno a una personalità peraltro discutibile (la quale ha fatto più danni che altro alla Causa catalana). Mi piacerebbe dunque che, così come si cerca di convincere unionisti e neofiti vari, riconoscessimo la volontà da parte di tanti indipendentisti di sotterrare l’ascia di guerra. Helis docet. È questo un fatto, o no?
    Sul PsdAz la pensiamo allo stesso modo, mentre sull’adeguamento della legge per le Europee mi auguro si trovi la forza e la volontà non solo di seguire, ma di agire.

    1. Non sono tanto d’accordo, Luca, mi perdonerai.
      Per altro, nessuno nella campagna elettorale 2014 sosteneva che si dovesse edulcorare il messaggio e la prospettiva indipendentista per non spaventare l’elettorato. Considerato che avevamo una candidata presidente indipendentista, questa cosa sarebbe stata anche ridicola, non trovi? Che sia circolata questa diceria e che abbia avuto successo la dice lunga sul settarismo e sulla paura del confronto che aleggiava – e tuttora aleggia – nell’indipendentismo. Che deve uscire dal ghetto, dalla zona di comfort, e assumere un ruolo più concreto nello scenario sardo (come dice, a ragione, Maurizio Onnis). Ma ci vuole preparazione, ci vuole una rete sociale robusta, ci vuole una base ampia di amministratori pubblici. Chiaro, ci vogliono anche tante altre cose, compreso un supporto teorico e intellettuale di peso, mass media almeno non ostili, connessioni internazionali. Su tutti questi terreni, però, non siamo privi di risorse, in realtà. Si fa fatica a fare massa critica, a formare un fronte non dico compatto ma almeno riconoscibile.
      A Oristano non c’era alcuna stanchezza, tutt’altro. Un sacco di vecchi arnesi dell’indipendentismo – alcuni con diverse cosette da farsi perdonare – che sono saltati fuori tutti ringalluzziti, nostalgici assortiti a cui non sembrava vero di poter evitare, per una volta, di affrontare questioni concrete e nodi politici aggrovigliati per fare solo una passerella di testimonianza. È stato un momento imbarazzante, per quanto mi riguarda. Come se vent’anni fossero passati invano.
      L’indipendentismo non è un’ideologia, come ho detto e scritto tante volte. Non è un insieme di obiettivi, valori, metodi, tematiche omogeneo. Essere favorevoli all’autodeterminazione democratica e mirare all’indipendenza formale della Sardegna non sono esattamente la stessa cosa, ma quanto meno coincidono per alcuni tratti, magari decisivi. Ma in ogni caso sono posizioni che non dicono nulla sui contenuti politici, sui valori e sui metodi: elementi che fanno la differenza, in politica. Finché non si faranno i conti con questa faccenda e si continuerà a dipingere l’indipendentismo come un ambito politico coerente e autosufficiente sul piano teorico e pragmatico, non ne usciremo mai.
      C’è bisogno d’altro, secondo me. O anche di altro. E lo dico senza aver in mano alcuna ascia di guerra e senza alcun intento denigratorio o anche solo polemico. Mera constatazione. È anche un’autocritica, visto che qualcosa, magari poca cosa, là in mezzo, l’ho combinata anche io.

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