Scuola in Sardegna: problemi, ipotesi, connessioni e mancate risposte

Si parla molto dei cattivi risultati degli studenti sardi, in questi giorni, ma senza alcuna prospettiva critica e analitica. È un tema rilevante, ma non ha alcun senso trattarlo in modo sensazionalistico e slegato dalle condizioni storiche generali e dagli altri fattori in gioco.

“Voi sarete la classe dirigente di domani.” Quante volte ho sentito questa affermazione, quando frequentavo il liceo.

Voleva esser uno stimolo a impegnarci di più, ad essere all’altezza di un compito che la nostra pretesa appartenenza sociale (dato che studiavamo al liceo classico) ci imponeva.

Per fare in modo che tale appartenenza sociale diventasse da ipotetica a reale, il filtro che si opponeva agli outsider era piuttosto selettivo.

Un intero corso di studi superiori concepito in termini classisti.

Le stesse quattro sezioni del triennio erano costruite con criteri di classe e di percorsi obbligati.

La sezione A dei predestinati; la sezione B come sua succursale; la sezione C dei quadri intermedi, degli “intellettuali organici” diciamo; la sezione D dei “vari ed eventuali”, prevalentemente pendolari, da cui magari sarebbe potuto emergere qualche caso eccezionale da cooptare nella sunnominata “futura classe dirigente”.

Tutto ciò, alla luce del sole, senza infingimenti o ipocrisie. Solo, difficile da riconoscere a prima vista da parte di un quattordicenne o anche di un sedicenne. Specie nell’epoca post 1980 del “riflusso”, del “ritorno al privato”.

Ma l’impostazione classista e italo-centrica della scuola in Sardegna non emergeva (non emerge?) solo nell’augusto contesto di un liceo classico. Fin dalle scuole elementari la selezione era ferrea.

Uno dei criteri della selezione era senz’altro la lingua.

Non sono così giovane da non aver conosciuto le punizioni corporali e soprattutto lo stigma negativo di cui erano oggetto i bambini che usassero il sardo come prima lingua di socializzazione.

Uno stigma che poi permaneva per tutta la carriera scolastica, a meno che il sardo-parlante in questione non capisse l’antifona e si desse una regolata.

Così poteva capitare – e qui torno all’aneddotica auto-biografica – che, un giorno, alla richiesta di una docente su chi usasse comunemente il sardo a casa, nessuno o pochissimi alzassero la mano, neppure tra quelli/e che tutti sapevamo che invece lo facevano.

Per altro, nella circostanza citata, la richiesta era dovuta a una curiosità linguistica positiva, una correlazione filologica tra alcune parole sarde e le corrispondenti parole greche. Nulla di dispregiativo.

Eppure la sola idea di auto-denunciarsi come sardo-glotti aveva paralizzato le anime fragili di tanti miei compagni e compagne.

Questo è un aspetto della complicata relazione tra i sardi e la scuola che troppo facilmente si omette dalle analisi sugli scadenti risultati degli studenti sardi.

Sarebbe sicuramente di interesse strategico avviare una indagine conoscitiva, una ricerca sistematica e a vario livello, su questo problema.

Ho idea che ne emergerebbero cose sorprendenti. Sorprendenti se non altro per chi si ostina a non prendere in considerazione, come fattori storici decisivi, la pesante zavorra della subalternità culturale, dei dispositivi coloniali e dell’acculturazione forzata.

Tanti bocciati e tanti ragazzi che non finiscono un regolare corso di studi, nelle scuole sarde. O meglio, nelle scuole italiane in Sardegna. È un dato che ormai potremmo storicizzare, tanto è duraturo.

È una notizia che a mia memoria fa capolino nelle cronache a cadenza regolare da diversi anni (per esempio nel 2014, o nel 2016, ma se ne trova traccia anche in precedenza).

Sono numeri e i numeri non mentono, si dirà. Dipende, potrei rispondere. I numeri non hanno voce propria e di solito dicono quello che gli si fa dire.

Chi controlla l’organizzazione del sapere e chi gestisce i mezzi di informazione ha tutta la possibilità di imporre la propria arbitraria lettura anche sui freddi dati statistici.

Così, ancora una volta, si presentano questi risultati prevalentemente come una colpa. E qui già siamo su un terreno paludoso.

In più, tale colpa sembrerebbe ascrivibile ai ragazzi stessi. In seconda battuta, agli insegnanti sardi. In ultima analisi ai sardi in quanto tali.

Nessuna di queste tre categorie ha alcuna colpa di alcunché. Primo, perché non è questione di colpa o di merito. Secondo, perché queste tre categorie sono caso mai le vittime e non i colpevoli.

Io non so dare risposte alla domanda ovvia sulle cause dell’alta dispersione scolastica in Sardegna, né sulle cause dell’alto numero di giovani che non studiano né lavorano. Posso giusto fare delle ipotesi, che però servono a poco.

Servirebbero invece studi seri, come auspicato più sopra, non mere raccolte di dati statistici.

Di sicuro non serve usare queste notizie come strumento di ulteriore depressione dell’amor proprio collettivo e come anestetico per la sana voglia di riscatto sociale e politico, oggi nonostante tutto ancora molto diffusa nell’isola.

È tutto l’insieme delle condizioni di vita in Sardegna che mostra indici preoccupanti in troppi ambiti strutturali. Mi pare ridicolo stupirsi poi se gli esiti sono drammatici.

Basta elencare alcuni dei nodi principali, i primi che vengono in mente, per avere un quadro della situazione.

La sistematica insufficienza infrastrutturale e nei trasporti (di cui sono responsabili tanto lo stato centrale, quanto la nostra classe politica podataria).

La devastazione del welfare e dei servizi sanitari pubblici.

L’indebolimento della scuola sia a livello di presenza infrastrutturale nel territorio sia come agenzia formativa ed educativa (e anche qui Stato e Regione sono in combutta).

La subalternità della classe politica sarda a centri di interesse esterni e a scelte politiche eterodirette.

L’accettazione delle servitù militari e industriali come inevitabili, con le loro conseguenze di inquinamento ambientale, sociale e politico.

Tutto questo ha un peso e un costo.

Lo spopolamento, la scarsissima natalità, l’impoverimento, i problemi ambientali, la dispersione scolastica sono delle conseguenze ovvie, in presenza di tali fattori. Inutile far finta di stupirsene.

Le risposte della politica sarda quali sono? Lamentazioni, ipocriti appelli alla benevolenza del governo centrale di turno, proclami vacui ma ben sorretti dai mezzi di informazione compiacenti, stigma o silenzio o sabotaggio contro qualsiasi proposta alternativa.

Naturalmente, in tutto questo, le casse della Regione riescono comunque a pagare le infrastrutture stradali (anche quelle di competenza statale), la continuità territoriale aerea e navale (che negli altri stati in cui esiste è a carico del governo centrale), tutta la sanità (ma distruggendo il sistema pubblico con la scusa dei “tagli”, nello stesso momento in cui si reperiscono decine di milioni di euro da dirottare verso una struttura privata).

Ma è una spesa pubblica mal assemblata, mal diretta e mal gestita, com’è evidente. Destinata al mantenimento dell’attuale stato di cose, non certo al suo miglioramento, tanto meno al suo mutamento radicale.

Purtroppo ritrovarci con una popolazione sempre meno numerosa, sempre più anziana, più malata e più ignorante garantisce a tale infernale meccanismo di dominio la sua perpetuazione.

Ed è fin troppo facile inoculare in questo corpo malato il virus del razzismo.

Questa è una novità relativa. Da tempo questo problema è stato sollevato dagli osservatori meno addomesticati. Pochi, certo, ma ci sono. Se n’è parlato anche qui.

Vedere tanti sardi sbavare e sbraitare in modo totalmente sgrammaticato (sia in sardo sia in italiano) contro i migranti è il sintomo preciso della prossimità di un punto di non ritorno.

Quanto sia umiliante e degradante – per loro e in fondo, almeno in parte, per tutti i sardi – questo atteggiamento, è evidente. O dovrebbe esserlo.

D’altra parte, molti di coloro che lamentano la deriva razzista e la connettono con l’ignoranza diffusa nel popolo, auspicando una riduzione del suffragio universale, sono tra i responsabili o i beneficiari di questa situazione. Nelle istituzioni, nei partiti, nella società civile, nei mass media.

Del resto – lo ricordo en passant – abbiamo un dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale di Cagliari che simpatizza apertamente per Casa Pound e scrive sul suo sito. E la cosa non sembra preoccupante per nessuno.

Il degrado non è casuale e non è un effetto accessorio di fenomeni slegati tra loro. Ci sono responsabilità storiche e pratiche quotidiane ancora in azione, allo scopo di farne la condizione normale e permanente della Sardegna.

Non cercate di incantarci con la storia dei sardi ignoranti e meritevoli di ogni sfortuna. È una storia vecchia. Fa ancora il suo sporco lavoro, è vero. Ma ormai è indifendibile.

Lamentare i cattivi risultati degli studenti sardi senza farsi le giuste domande e senza avere il coraggio di cercare davvero le risposte è un esercizio retorico stucchevole e dannoso.

Non connettere questo problema con tutto il resto è sbagliato.

Alla Sardegna, tra le altre cose, serve urgentemente una scuola più efficiente, più democratica, più calibrata sui bisogni e sulle caratteristiche demografiche e culturali locali.

Questa necessità, per forza di cose, non sarà mai (e dico mai) soddisfatta dai governi italiani, di qualsiasi colore essi siano. Di sicuro, non dall’attuale governo gialloverde (con ampie zone d’ombra, per altro).

E questa è solo una delle nostre diverse necessità strategiche a cui dare risposta nel più breve tempo possibile.

Risposte che non troveremo se non dentro un processo di democratizzazione radicale della nostra società, di riscatto sociale, politico e culturale generalizzato, di autodeterminazione collettiva.

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