La vicenda catalana, ancor più di quanto abbia fatto quella scozzese, mette in luce l’impalcatura ipocrita e amorale delle istituzioni europee e degli assetti socio-economici che esse difendono.
Il silenzio prolungato dell’Europa cominciava a somigliare all’atteggiamento meschino già tenuto a suo tempo sulla crisi jugoslava (silenzio che, allora come ora, nasconde sempre opportunismo e piani B, sempre pronti alla bisogna).
Fortunatamente lo scenario iberico è ben lontano da quello balcanico del 1991-5, nonostante il nazionalismo autoritario di Mariano Rajoy possa somigliare a quello di Slobodan Milošević, con i dovuti distinguo.
Ieri il silenzio è stato rotto, non in modo clamoroso, ma in modo ufficiale. Cito dal pezzo di Marco Santopadre su Contropiano:
Il portavoce della Commissione Europea, Margaritis Schinas, ha affermato ieri che la chiusura di circa 200 pagine web in Catalogna da parte del governo di Madrid, rientra all’interno della “legalità”. Il portavoce dell’Ue ha giustificato le misure adottate visto che “sono state ordinate da magistrati in un contesto specifico e ha ricordato che la Commissione non ha competenze specifiche sulla questione riaffermando di fatto, indirettamente, che giudica quanto sta accadendo a Barcellona una questione interna allo Stato Spagnolo.
Forse era meglio il silenzio.
Questa circostanza evidenzia una discrepanza fondamentale nelle questioni politiche, la discrepanza tra forma e sostanza, tra il livello astratto e/o teorico e il livello concreto, storico dei fatti umani.
È importante sottolinearlo e cercare di trarne una lezione.
Se c’è una cosa che dovrebbe averci insegnato il materialismo storico e tutta la riflessione anti-metafisica moderna (trasversale a tante discipline, dalla filosofia, al diritto, all’economia, alla politica) è che i più grandi mali derivano all’umanità dalla fede in principi astratti indimostrati e/o indimostrabili, a discapito delle relazioni concrete tra esseri umani e tra esseri umani e mondo.
È l’ammonimento di Nietzsche, l’anatema contro il “mondo dietro al mondo”: “sii fedele alla terra!”.
È lo stesso ribaltamento rivoluzionario operato dalla fisica moderna con i Galilei e i Newton, dal pensiero scientifico, dall’illuminismo, e anche da Marx.
Cosa significa tutto ciò?
Significa che l’unica verità viva, tangibile, che ha influenza su di noi e che noi possiamo pensare di influenzare con le nostre azioni, è quella delle cose reali, delle cose come sono, della vita così com’è nel mondo.
Tutte le volte che qualcuno sacrifica la realtà in nome di un ideale astratto, sia pure nato da una pulsione virtuosa, sta commettendo un crimine.
Al rischio non sfuggono nemmeno coloro che si dichiarano seguaci dei grandi smascheratori della storia.
È paradossale, ma persino sulla base del pensiero di un anti-metafisico e anti-dogmatico come Nietzsche si sono costruite giustificazioni cervellotiche per crimini ed efferatezze ingiustificabili.
La stessa cosa si può dire di Marx, sul quale grava, del tutto ingiustamente, una condanna immeritata per azioni altrui, spesso compiute in suo nome ma in spregio alle sue parole.
Ma lo stesso discorso si può fare per il diritto. Quando sento invocare la legalità come valore assoluto, da anteporre a qualsiasi altra cosa, non posso che pensare a qualche enorme ingiustizia prossima ventura.
Anche le leggi razziali del fascismo erano legali, anche i campi di concentramento erano legali, anche l’apartheid era legale. Ed è sempre illegale l’opposizione politica a tutti i regimi autoritari.
Era legale far lavorare bambini. Era legale lavorare per 12 o 14 ore. Era legale il commercio degli schiavi. È legale oggi definire “clandestino” un essere umano sul pianeta Terra.
Il problema del diritto è che in natura il diritto non esiste. Con buona pace dei giusnaturalisti, il diritto esiste in quanto posto (o imposto), in quanto positivo.
E il diritto è sempre un frutto politico e dipende fondamentalmente dai rapporti di forza e dalle circostanze storiche.
Per questo la democrazia esiste solo se ha una base pattizia collettiva, se garantisce la divisione dei poteri, la tutela delle minoranze, la sovranità del popolo e l’eguaglianza. O è così, o non è democrazia, né sono democratiche le norme che si richiamano a sua difesa.
Non solo dunque è ridicolo appellarsi a principi astratti e a schemi rigidi, quando si tratta di vicende umane, ma lo è ancora di più quando è palese dove stia il giusto e dove l’ingiusto.
Se si fosse dovuta seguire la legge e rispettare l’autorità costituita, non ci sarebbe stato antifascismo, non ci sarebbero state lotte sindacali, non ci sarebbe stata la decolonizzazione, non si sarebbe conquistato alcun diritto.
Perciò, nella vicenda catalana, come in altre vicenda analoghe, non ha alcun senso invocare il rispetto per la legalità, richiamando l’applicazione pedissequa della costituzione del Regno di Spagna.
È un argomento che non sta in piedi.
Dice: ma esiste il diritto all’autodeterminazione dei popoli ed è diritto anche quello.
Sì e no. Il diritto internazionale, per sua natura, è più una finzione di comodo, che non un ordinamento vigente, cogente ed effettivo: vige e ha valore finché sta bene a chi è più forte.
Perciò, è giusto che esista questo principio generale e che sia richiamato in diversi trattati internazionali, così come è ammirevole la codificazione dei diritti dei popoli sancita dalla Carta di Algeri (1976). Ma alla fine l’autodeterminazione è un fatto storico concreto, più che una faccenda che si svolge sul piano giuridico.
Così come lo è qualsiasi lotta di liberazione, qualsiasi rivoluzione che abbatta un regime oppressivo, qualsiasi ribellione contro un’ingiustizia palese e concreta.
Anche in ambito economico vale la stessa opposizione reale/formale, pratico/teorico. È una dicotomia che si palesa in tutta la sua concretezza quando un ordine economico, presuntamente “naturale”, inevitabile, oggettivo, si scontra con le esigenze di vita di una parte consistente della popolazione.
Oggi come oggi prevale l’idea che esista solo un ordine economico legittimo, che è quello capitalista, in cui si intersecano i grandi interessi di soggetti privati sovranazionali con quelli delle élite dominanti nelle varie porzioni del globo.
Molte scelte dei governi discendono dall’applicazione di normative e precetti presentati come del tutto legittimi e giustificati da forze storiche trascendentali, quasi metafisiche, a loro volta incarnate da soggetti impersonali ma sovraordinati a qualsiasi istituzione politica (i famosi “mercati”, ad esempio).
Nella scuola economica politicamente egemone è tutto un fiorire di modelli molto attraenti e formalmente coerenti, tipo la teoria marginalista, l’homo oeconomicus e il suo il vincolo di bilancio, le brillanti equazioni di gente come Friedman e i Chicago Boys, ecc.
Ciarpame ideologico spacciato per verità scientifica, usato per dominare interi popoli, stati, continenti in piena legittimità e legalità (pensiamo al “pareggio di bilancio” inserito come principio generale nella costituzione italiana: una bestemmia giuridica, economica e sociale).
Ribellarsi all’ordine economico dominante è lecito? Ignorare gli appelli alla competitività, posta come regola generale e assoluta della convivenza umana, è consentito? Stabilire che valga di più la vita degli esseri umani e l’equilibrio ecologico dei profitti e degli affari è scandaloso, illegittimo, sbagliato o è solo puro buon senso animale (quello che Nietzsche vedeva latitare pericolosamente nella nostra specie)?
Certo, sul piano teorico sono concetti difficili da codificare e piuttosto sfuggenti. È vero che non sempre è facile capire dove inizi una giusta rivendicazione e dove finisca la validità di un ordine legale, di un ordinamento giuridico o sociale.
Così come è difficile definire astrattamente e una volta per tutte cosa sia un popolo, cosa sia l’autodeterminazione, cosa sia una rivoluzione e fin dove sia lecito applicare tali definizioni, quando, a chi, come.
Eppure tutti siamo in grado di discernere il giusto dall’ingiusto. Lo siamo fin da bambini. Nascondersi dietro questioni di forma o dietro la legalità o persino dietro la scienza, è solo una scappatoia meschina davanti alle crisi storiche.
È il caso di attrezzarci meglio, in questo senso, perché le crisi non sono finite e ciò che ci aspetta non sarà necessariamente un periodo di pace e di equilibrio politico.
I guasti sociali perpetrati negli ultimi quattro decenni anche nei paesi ricchi stanno presentando il conto, così come succede per i disastri prodotti in nome del nostro benessere nelle zone del mondo più povere.
Il pianeta stesso sta cominciando a lanciarci segnali di inquietudine. E non dimentichiamo – non dimentichiamolo mai – che è l’unico pianeta abitabile a nostra disposizione.
Pensiamoci, quando qualcuno – chiunque sia – contrappone l’ordine costituito a una sua sana (e spesso necessaria) messa in discussione. Che si tratti di autodeterminazione dei popoli, di lotte sociali, di ricerca di un modello economico ed ecologico diverso o di tutto questo insieme.