Ricevo da Cristiano Sabino e ospito qui su SardegnaMondo un nuovo contributo sulla condizione attuale dell’indipendentismo e sul processo di autodeterminazione in Sardegna, alla luce dei risultati delle recenti elezioni amministrative.
Cristiano Sabino
Le amministrative del 5 giugno e in particolare il risultato di Cagliari hanno fatto molto discutere sulle strategie del mondo indipendentista. Il risultato della proposta civico-indipendentista guidata dal partito ProgReS e l’incetta di voti dell’area “sovranista” alleata del centro sinistra italiano hanno fatto parlare di fallimento della strategia di non collaborazione con i partiti italiani e di vittoria definitiva della linea di alleanza organica alla “sinistra” italiana come modello indipendentista pragmatico, graduale e di governo.
Le cose stanno davvero così? Facciamo un passo indietro per capire meglio.
All’inizio degli anni Duemila, quando emerse iRS come forza egemone e trainante dell’indipendentismo, chiunque parlasse di “sinistra” veniva etichettato come “non sardo” e al guinzaglio di “categorie italiane”. La linea di iRS era chiara: nessuna collocazione ideologica nell’arco destra-sinistra e nessuna collaborazione o progettualità comune con gli altri soggetti politici indipendentisti. Praticamente in contemporanea nasceva l’organizzazione della sinistra indipendentista A Manca pro s’Indipendèntzia. Dopo una iniziale chiusura dettata da un certo settarismo e influenzata dalle ideologie antagonistiche, aMpI sviluppò una linea politica originale diametralmente opposta a quella di iRS: collocarsi a sinistra e favorire non solo la collaborazione ma addirittura la costruzione di un progetto politico di convergenza indipendentista e nazionale, definito nelle sue tesi politiche più mature “tattica del blocco nazionale”. Nessuno aveva però mai posto in dubbio una questione: l’indipendentismo inteso come linea politica alternativa al blocco politico dei partiti italiani.
Il PsdAz nel frattempo continuava la sua autonoma traiettoria di sempre: andare all’ippodromo pre-elettorale, puntare sul cavallo con più possibilità e partecipare al banchetto in caso di scommessa vincente. Un gioco che ha poco a che fare con le tattiche e le strategie politiche, anche perché a conti fatti le influenze del “partito sardo” sulla politica regionale dal dopoguerra ad oggi sono state praticamente nulle sui punti strategici dell’interesse nazionale dei sardi, anche quando il PsdAz ha potuto esprimere il governatore della Regione Autonoma con Mario Melis. La collocazione del PsdAz non è mai stata dunque né ideologica né tattica, bensì unicamente finalizzata all’ascesa della carriera politica personale di alcuni pesci grossi che di fatto, spesso e volentieri, una volta spiccato il volo staccavano il biglietto per partiti considerati più remunerativi da questo punto di vista.
A rompere il quadro fu un fatto quasi insignificante a cui nessuno all’epoca diede gran peso ma che costituisce i prodromi della deriva entrista e liquidazionista di buona parte dell’indipendentismo. Il PsdAz firmò l’alleanza con il centrodestra nel 2009 per le elezioni regionali e una sua piccola costola minoritaria e priva di spessore politico uscì dal partito con una furiosa polemica scomodando l’antifascismo di Emilio Lussu. Nacquero così i Rossomori di Gesuino Muledda (il nome del movimento appunto è mutuato da uno dei libri di Lussu). Tutto l’antifascismo e l’antidestrismo dei Rossomori si ridusse in una salda adesione ideologica al centro-sinistra italiano che nel frattempo stava terminando la sua metamorfosi storica: da posizioni socialdemocratiche piuttosto di destra e guerrafondaie fin dalla fine degli anni Novanta a vero e proprio polo di attrazione degli interessi più sfacciatamente classisti e antipopolari delle oligarchie dominanti in Italia e prona sponda per la politica dell’Austerity europea implementata dalla Banca Centrale Europea e dall’organismo antidemocratico denominato “Eurogruppo” (quelli che hanno ricattato, umiliato e fatto finire sul lastrico il popolo greco tanto per intenderci!).
Nello stesso periodo incominciarono ad essere visibili i dissidi all’interno di iRS che ne determinarono la scissione. A conti fatti dall’area di iRS vennero fuori due tendenze: proseguire sulla strada della democrazia e dell’indipendenza e collocarsi sotto la protezione del blocco politico denominato “centrosinistra”, liquidando al contempo la democrazia interna e scegliendo i capi politici tramite capacità clientelare e conseguente acclamazione. Così noti personaggi indipendentisti, che avevano fatto dello slogan “né di destra né di sinistra, ma sardi” una bandiera, si convertivano velocemente sulla via di Damasco e organizzavano seminari sulla “nuova idea di sinistra” per giustificare il proprio entrismo nel sistema di alleanze a guida PD.
Le elezioni regionali del 2014 complicarono lo scenario. Mentre i sardisti puntarono sul cavallo sbagliato del “centrodestra”- oramai in disfacimento a livello dell’intero stato italiano e il “centrosinistra” inglobò i diversi cespugli ex indipendentisti raccolti sotto la nuova egida del “sovranismo”- le residue forze indipendentiste non riuscirono a stringere un accordo quadro e si presentarono separate. Ne scaturirono due coraggiose idee di allargamento alla società civile che guardavano oltre le elezioni: Sardegna Possibile, la cui mente strategica era ProgReS, e il Fronte Indipendentista Unidu, la cui anima politica era A Manca pro s’Indipendèntzia.
Sardegna Possibile rifletteva sulla strutturazione leggera di uno spazio politico civico-indipendentista e faceva dell’allargamento ai “non dipendentisti” la sua punta di forza, intuendo giustamente che l’indipendentismo avrebbe dovuto offrire la possibilità a intere compagini della società sarda progressista, e sempre più lontana dal modello oligarchico rappresentato dal “centrosinistra”, di essere accolta in un progetto autocefalo sardo, in cui l’indipendentismo rappresentasse una opzione spendibile e la sintesi. Il progetto del Fronte fece forza sulla determinazione degli indipendentisti di base di superare dal basso le resistenze dei vertici dei movimenti a costruire un fronte unito contro la colonizzazione e il collaborazionismo puntando sulla “democrazia indipendentista”.
Entrambi i progetti si rivelano vincenti e perdenti allo stesso tempo. Vincenti perché mai come alle regionali 2014 l’indipendentismo si fece sentire con i suoi temi e le sue proposte, schiaffeggiando spesso e volentieri pubblicamente gli esponenti dei blocchi legati ai partiti italiani e le loro nuove stampelle “sovraniste”. Perdenti perché, a conti fatti, non esistevano ragioni per cui questi due progetti non potessero convivere sotto lo stesso tetto e soltanto la corsa all’egemonia sull’“allargamento politico” determinò tale spaccatura.
Anche da un punto di vista politico SP e FIU raccolsero consensi inaspettati catalizzando decine di migliaia di voti che soltanto grazie alla loro divisione e a una legge elettorale infame e fascista non permise all’indipendentismo di avere rappresentanza nelle istituzioni regionali. SP in particolare raccolse un consenso davvero da capogiro che si aggirava intorno al 10%; basti pensare ai voti raccolti dal suo candidato governatore, anche se le liste fecero di meno. Anche il Fronte riuscì a raccogliere un buon pacco di consensi se si pensa ai suoi pochi mezzi, al fatto che per le assurde regole imposte non era riuscito a raccogliere le firme in due province e alla capacità attrattiva esercitata da SP. In alcuni paesi superò il 15% dei voti e avrebbe potuto tranquillamente ambire a piazzare una serie di amministratori alle successive elezioni comunali.
Il dopo elezioni fu movimentato. Da una parte, al congresso di ProgReS prevalse una linea di correzione parziale della strategia di Sardegna Possibile e dei suoi limiti strutturali, consistenti nella poca inclusività rispetto alle altre forze indipendentiste e al pericolo di deriva leaderista. Nel Fronte Indipendentista i dissapori si manifestarono quando A Manca pro s’Indipendèntzia ritirò l’appoggio politico al progetto, liquidando le dichiarazioni degli esordi sul “nuovo corso democratico” dell’indipendentismo. Prima aMpI, poi l’ex candidato governatore del FIU, uscirono pubblicamente dichiarando il Fronte una esperienza chiusa e dimostrando che si trattava soltanto di una operazione elettorale fine a se stessa.
La parabola di aMpI finisce qui e dalle sue ceneri è nato recentemente un nuovo soggetto collocato nell’area di sinistra (Libe.r.u.) il quale però prevede solo collaborazione su temi specifici con le altre forze nazionali e non la costruzione di uno spazio politico strutturato, democratico e stabile, a mio avviso facendo da questo punto di vista enormi passi indietro rispetto alla “tattica del blocco nazionale” di A Manca pro s’Indipendèntzia.
Per quanto ininfluente di per se stessa la scelta dei Rossomori di praticare l’entrismo “ideologico” nel centrosinistra ha, obtorto collo, cambiato la storia dell’indipendentismo perché ha aperto un varco in cui si sono insinuati successivamente dirigenti che non provenivano dal classico opportunismo e trasformismo sardista, bensì dall’indipendentismo di tipo nuovo, quello che era nato con una forte connotazione “antisardista” e poco disponibile al compromesso di ogni genere. Il piccolo varco aperto dai Rossomori si è allargato fino ad ingoiare buona parte della dirigenza indipendentista, dimostrando la capacità egemonica e magnetica della classe politica coloniale tutt’altro che “passata sul posto” e, anzi, capace di trarre linfa vitale proprio da quelle componenti che ne avevano criticato più aspramente le fondamenta teoriche basate sull’autonomismo, simboli e retorica compresi.
Con l’avvento della nuova stagione del collaborazionismo le divisioni che avevano contraddistinto dall’interno l’area indipendentista si sono volatilizzate. Discorsi che avevano appassionato centinaia di militanti e che avevano anche incendiato polemicamente gli animi sono invecchiati precocemente. Chi oggi discuterebbe per ore sulla “vera storia della bandiera sarda” o sull’adesione o meno ai principi gandhiani? Chi metterebbe il veto agli indipendentisti di matrice marxista e chi, viceversa, accuserebbe gli indipendentisti non di sinistra di non possedere una visione egualitarista della lotta di liberazione nazionale? Chi si affaccia oggi sulla scena indipendentista faticherebbe a credere ai racconti di certe assemblee e certi confronti che si svolgevano fino a pochissimi anni fa… Cos’è cambiato?
Semplicemente tali questioni sono state spazzate via dalla pratica trasformista di una parte dell’indipendentismo, che è passata armi e bagagli al campo considerato “nemico” fino ad un attimo prima. Le ultime elezioni amministrative hanno come suggellato e avallato questa strategia con il conforto dei consensi elettorali. Molti sono stati i commenti favorevoli all’indipendentismo “pragmatico” che si sporca le mani per il bene della nazione contro l’indipendentismo “purista” incapace di leggere la realtà e condannato a fare “associazionismo culturale”. Le cose sono davvero da porre in questi termini?
Innanzitutto chiediamoci cosa ha prodotto l’indipendentismo “pragmatico” con il suo entrismo. Il pragmatismo americano in filosofia è la teoria dell’utile e della pratica contrapposto ad ogni forma di idealismo e dogmatismo: una teoria è quindi vera a seconda dei risultati pratici che esprime. Quali sono quindi gli utili “pragmatici” e le pratiche prodotte dallo sporcarsi le mani sui principali temi storicamente avanzati dall’agenda indipendentista, vale a dire “lingua sarda”, “occupazione militare”, “fiscalità”, “agroalimentare”, “trasporti”, “spopolamento”, “inquinamento e bonifiche”, “credito”?
Chi segue la politica regionale conosce le risposte: smantellamento di quel poco di politica linguistica presente; atteggiamento supino e servile verso l’Esercito Italiano e il Ministero della difesa; presa in giro della chiusura della vertenza entrate; assenza di una politica di sovranità agroalimentare e di un freno all’espansione cancerosa dei megamercati; isolamento internazionale della Sardegna e sua cattività nelle mani dei monopolisti dei trasporti; moria delle zone interne; subalternità alle multinazionali inquinanti e apertura di nuovi inceneritori; smantellamento del credito sardo a tutto beneficio del credito emiliano. Si potrebbe continuare per pagine e pagine… È questo lo stato che stanno costruendo gli “indipendentisti di governo”? Bene, non ci piace per niente.
Allora la questione è semplice. L’alternativa oggi non si da tra “indipendentisti pragmatici” e “talebani puristi” e nemmeno tra indipendentisti “di sinistra” e “interclassisti”. La vera dialettica intercorre invece tra chi vuole costruire un’alternativa nazionale e chi, per un motivo o per l’altro, adottando una scusa o l’altra, non ne vuole sapere di ciò che in altra sede ho chiamato la “sala della Pallacorda sarda”, ovvero uno spazio politico comune di alternativa al colonialismo, all’autoritarismo e alle oligarchie sarde e internazionali. La scelta in agenda è tra chi ha scelto di capitolare al solito vecchio modello di società sarda subalterna agli interessi e alle logiche funzionali alla statualità italiana e chi invece vuole costruire un percorso di liberazione e di emancipazione completamente alternativo con tutti i sardi e le sarde disponibili.
L’indipendentismo c’entra fino ad un certo punto, perché nell’immediato la questione “indipendenza” non è all’ordine del giorno come lo è invece per esempio in Catalogna. Prima bisogna salvare la nostra terra dalle grinfie di speculatori, avvelenatori, corrotti e oligarchi e per farlo ci serve un grande progetto di salute pubblica.
Ora la domanda è: gli indipendentisti saranno capaci di promuovere questo nuovo corso diventando il punto di riferimento per larghi strati della società e dell’opinione pubblica sarda? Se ci riusciranno, costruiranno le fondamenta del futuro stato sardo attirando a sé le forze sane della nazione sulla base del rispetto di alcuni temi etico-politici fondamentali come la lotta ad ogni discriminazione e il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, avviando un processo di educazione politica di massa, in ogni paese, in ogni borgata, in ogni tanca, in ogni città.
Se falliranno e si faranno invece abbagliare dal luccichio del potere e del governo “ora e subito” o da nuove pulsioni da partitello egemone, dovranno rendere conto alle generazioni future di avere tradito la propria missione storica e di aver accettato di barattare la dignità e la progettualità per qualche cifra tonda nel proprio conto in banca o qualche primo piano in qualche giornale di provincia. Questa l’alternativa. Questa la scelta. Tertium non datur!