Contro il dipendentismo, piccoli grandi esempi di autodeterminazione

Ieri ho assistito a uno spettacolo teatrale in un posto bellissimo. Giovanni Carroni, noto attore e autore della compagnia Bocheteatro di Nuoro, ha messo in scena Bachisio Spanu, storia di un fante della Brigata Sassari nella Prima guerra mondiale. E questo già merita di essere sottolineato, dato che si tratta di un lavoro lontano dalla retorica del sacrificio eroico dei “sardi speciali” che ammorba questo tema. Per di più il testo è in sardo (meridionaleggiante, il che, dato che Giovanni Carroni è nuorese, è una bella prova di versatilità e anche di apertura mentale). Un bellissimo monologo, interpretato con la consueta maestria da un attore che non ha bisogno di molte presentazioni. Da notare lo spiazzamento del pubblico, per lo più ignaro del tema e del registro dello spettacolo, al suono della lingua sarda: alcune risate soffocate, un certo imbarazzo. Lo stigma che accompagna il sardo fa sì che non vi si associ la possibilità di una recitazione “seria”. Sentirlo usare in un contesto non colloquiale bensì formale e con il crisma della cultura “alta” (“alta” all’italiana, ossia, non popolare e normalmente in italiano letterario) risulta spiazzante per tanti sardi. Spunti di riflessione su cui lascio a chi legge il compito di ragionare. In realtà vorrei parlare di qualcos’altro.

Il contesto in cui si è svolta la rappresentazione era il sagrato della chiesa campestre di San Gemiliano, nei pressi di Villanova Truschedu, nel Barigadu. Mi rendo conto di aver fornito indicazioni geografiche che a moltissimi sardi non dicono nulla. Non Villanova Truschedu e nemmeno Barigadu. La nostra ignoranza di noi stessi è proverbiale, come si sa. Tuttavia è impostante soffermarsi proprio sull’ubicazione dell’evento culturale. Non tanto per sottolineare come sia importante diffondere cultura ovunque, anche lontano dai circuiti maggiori (cosa che in Sardegna per fortuna si fa e con sempre maggiore sistematicità), quanto per la particolarità del luogo stesso. San Gemiliano è una località amena, aperta verso le alture del Barigadu che costeggiano il Tirso (in quel tratto, navigabile) e ne risalgono il corso fino all’altopiano di Abbasanta e di Ottana. Nei pressi della chiesa esiste un’area archeologica nuragica (come spesso accade) e tutt’intorno ve ne sono altre, molto belle, con monumenti notevoli, in parte in via di tutela e valorizzazione. Ma anche questo tutto sommato non è un fatto inedito.

La cosa che mi ha colpito molto e su cui vorrei attirare l’attenzione è proprio il paese di Villanova Truschedu. Un piccolissimo comune (meno di 400 residenti), apparentemente lontano da tutto (da quel che normalmente consideriamo “tutto”), ma curato, visivamente accogliente già al primo impatto e per di più dotato di servizi sorprendenti: una piscina con annesso parco giochi per bambini e campo sportivo, servita anche di bar e pizzeria. In piccolo, il modello è quello del “lido” sud-tirolese, tipico di molti centri dell’Alto Adige. Solo, fatto su misura per la popolazione locale, senza speculazioni, senza brutture inutili, senza incoerenze estetiche e/o architettoniche.

Nell’insieme, anche nell’atteggiamento delle persone incontrate, si respirava serenità, qualcosa di radicalmente diverso dal cliché del “malessere” di solito associato alle famigerate Zone Interne, alla Sardegna “di dentro”. A quanto pare, è per merito della locale Consulta giovanile che il paese di Villanova Truschedu può godere di tali comodità. E anche questo è un elemento su cui vorrei attirare l’attenzione.

Si fa un gran parlare, anche in questi giorni, del problema dello spopolamento e dell’invecchiamento della popolazione residente in Sardegna. È un problema serio, lo sappiamo. È un bene che se ne prenda coscienza e che lo si connetta al resto delle questioni strutturali a cui dobbiamo dare risposte, anche perché il verso in cui va la politica sarda è invece quello di accelerare il nostro declino come collettività umana e rendere la Sardegna definitivamente accessibile ai grandi interessi economici, militari e geo-politici. Agli allarmi e al sensazionalismo di una notizia lanciata per poche ore sui mass media non corrisponde una assunzione di responsabilità generalizzata. Spesso anche chi è sinceramente preoccupato e ha una coscienza politica superiore a quella del lettore medio di Libero o di Repubblica (e lasciamo stare la maggioranza di non lettori) non supera la fase del lamento.

L’esempio di Villanova Truschedu è un segnale di possibilità pratiche lanciato come messaggio in bottiglia nello stagno della nostra agonia sociale e politica. Se un paesino periferico e davvero piccolo anche per gli standard sardi, con le sue sole risorse, è in grado di offrire ai propri cittadini una qualità della vita non solo accettabile ma più alta della media, significa che ciò è possibile in molti altri posti. Che a dare una svolta alla situazione sia stata una Consulta giovanile non è un caso. Ovunque ci siano Consulte giovanili, quando queste funzionano, le comunità ne traggono giovamento. Le comunità nel loro insieme, non solo i giovani del posto. In una società vecchia e indebolita come quella sarda, la cui componente adulta e anziana per di più è avvinta nell’incantesimo malvagio della nostra inferiorità, della nostra inevitabile dipendenza, lasciare spazio ai giovani è un’ottima medicina politica e sociale.

Quanto questo modello sia lontano dalla politica sarda istituzionale, lo lascio constatare a chi legge. È evidente il disegno distruttivo che anima la classe dominante isolana (in conto terzi). Negli ultimi anni c’è stato anzi un salto evolutivo, prima solo abbozzato con la giunta Cappellacci e ora portato a compimento dalla giunta Pigliaru, probabilmente la più dipendentista della storia sarda contemporanea. Chi, in buona fede, ancora qualche mese fa poteva credere che affidarsi ai soliti schieramenti politici potesse comunque avere un senso, oggi deve necessariamente misurarsi con i dati di realtà. Per la politica sarda dei partiti italiani e dei loro complici locali Villanova Truschedu deve semplicemente scomparire, e deve scomparire proprio in quanto esempio virtuoso di una possibile alternativa sistemica. Così come deve scomparire il tessuto relazionale che ancora tiene insieme le nostre comunità e consente ai sardi di sopravvivere nella loro terra.

Siamo in presenza di una necessità storica stringente: animare una resistenza e tradurla in rivoluzione. Non ci sarà un palazzo d’Inverno da prendere o una Bastiglia da assaltare e distruggere, ma c’è bisono di un lavoro diffuso e coordinato tra tutte le forze produttive (in senso materiale e immateriale), sane, libere che la Sardegna può ancora offrire. Ce ne sono più di quanto il sistema di potere dominante gradirebbe. Bisogna evocarle, far sapere ad esse stesse di esistere e offrire loro uno spazio politico in cui contribuire alla costruzione della Sardegna che vogliamo, lontana dalla paura, dalla povertà culturale e economica, come dalla disarticolazione sociale e culturale, liberata dalle schiavitù del clientelismo e del ricatto occupazionale, ripulita dalle brutture che tanti decenni di speculazione cementifera, di attività bellica incontrollata e attività industriali ormai defunte ci hanno lasciato. La scelta di campo è chiara. Nessuno può più far finta di non capire. Raccontare che la possibilità di un’alternativa esiste già è importante, anzi doveroso. Sollecitare una maggiore conoscenza della Sardegna da parte dei sardi, idem. In fondo le due cose vanno di pari passo.