È sempre difficile analizzare uno scenario di cui si è parte e dinamiche ancora in corso in cui si è immersi. Nondimeno è un esercizio che va fatto, in questa fase politica, apparentemente incoerente e aperta a varie possibilità. Dico apparentemente, perchè dietro il velo dell’infotainment somministratoci dai grandi centri di comunicazione di massa quel che conta davvero sono i rapporti di forza, le relazioni economiche e di potere, le grandi correnti di energia storica che attraversano il pianeta fin nei suoi più infimi pertugi. Dimenticare di essere un elemento di un sistema complesso ma chiuso può indurre a letture semplicistiche o del tutto erronee.
Per questo è inutile, se non dannoso, parlare di cose sarde senza avere sempre presente tutto il resto: la crisi del modello capitalista totalitario; i riposizionamenti dei grandi centri di potere internazionali; le logiche di dominio del grande moribondo statunitense (ancora la maggiore potenza militare del pianeta); le scelte strategiche delle classi dominanti delle potenze emergenti; la dolorosa transizione europea verso un altrove indefinito; il raggrumarsi dei problemi economici, dunque ecologici, dunque sociali su scala mondiale; la crisi dei grandi punti di riferimento teorici e spirituali a tutti i livelli.
Dentro questo quadro è facile ridimensionare al poco che rappresenta la malloppa indigesta della politica italica, con la sua autoreferenzialità e le sue meschinità congenite (che la morte di un grande tessitore di trame come Andreotti fa coerentemente risplendere di ipocrisia). Anche qui, sotto le narrazioni di comodo veicolate dai mass media, quel che avviene nella realtà è che il blocco storico indebolito ma che ancora domina lo stato italiano sta cercando un modo per perpetuarsi, a dispetto di tutto e a discapito (ma col consenso) di un’ampia porzione dei cittadini; così per ora si accontenta di galleggiare in un interludio anestetico, fino a che non sarà trovata una soluzione spendibile (come fu quella di Berlusconi nel 1994).
Ma se sembra insignificante ciò che succede in Italia, con i suoi sessanta milioni di abitanti, cosa mai può rappresentare la sorte della Sardegna con il suo milione e settecentomila? In fondo è l’equivalente di un quartiere di Mumbay o di Città del Messico o di Istambul o di San Paolo del Brasile. E nemmeno dei più popolosi. Eppure è la Sardegna il nostro primo, più vicino, orizzonte di riferimento, sia perché è il luogo in cui viviamo o a cui apparteniamo, sia perché alla fine ogni elemento di un sistema chiuso ha la propria rilevanza, sia pur relativa, e può non solo essere influenzato dagli altri elementi ma influenzarli a propria volta.
Non sembra che la consapevolezza della complessità e al contempo della intrinseca connessione del mondo conformi di sé il discorso pubblico sardo. Sarà che abbiamo un tasso di analfabetismo funzionale pericolosamente alto, ma la puerilità e la pochezza della nostra politica grida vendetta agli occhi di chiunque abbia un cervello funzionante e un minimo di senso critico. I partiti che agiscono nello scenario sardo sono per lo più paraventi formali di gruppi di potere di poco conto, dipendenti da interessi spesso di scarsa portata ma non per questo meno rapaci, a loro volta però legati strettamente a padroni più potenti e dallo sguardo più ampio, anche se non meno votati al proprio tornaconto particolare. E non sono certo solo gli interessi della classe dominante italiana a dettare legge in Sardegna. È sempre più evidente che rimaniamo una pedina nelle mani di grandi giocatori su scala globale, che siano gli USA e i loro rinnovati interessi strategici, o il Qatar e la sua brama di accaparramento di suolo agricolo e di impiego fruttifero di capitali finanziari, o qualche multinazionale a caccia di profitti.
Suona perciò patetica la rilevanza che siamo costretti a dare a sceneggiate insulse come la votazione della legge finanziaria regionale (pur con tutte le sue implicazioni concrete), accompagnata dal corollario di piagnistei e appelli al sovrano dei nostri rappresentanti. Chiaramente Cappellacci e gli altri non sono certo lì per governare davvero la Sardegna, tanto meno per farlo in nome e per conto dei sardi. Ma non lo sono nemmeno i diversamente concordi del PD, come dovrebbe essere ormai evidente a chiunque non sia in mala fede.
Si dirà che non basta constatare il nostro degrado, si dovrebbe anche vedere dove ci sia una possibilità di rinnovamento. Ma anche su questo fronte l’apparato informativo sardo, che non rappresenta un osservatoe critico super partes, bensì è schierato con uno o l’altro dei giocatori, non fa che propinarci una storia fatta di falsi colpi di scena, finti conflitti, proposte dilatorie, problemi marginali eretti a questioni vitali, con protagonisti e comprimari scelti ad arte, secondo una logica strettamente narrativa, non certo nel rispetto della scrupolosa aderenza alle concrete dinamiche in atto e ai fatti puri e semplici.
Anche chi è animato da onestà intellettuale e politica, chi è davvero propenso a darsi da fare per un bene che oltrepassi la soglia del proprio ego, spesso è imbrigliato in una visione compromessa da elementi mitici fasulli, dalla adesione a pregiudizi sedimentati, dalla fedeltà a idee che sono ormai interiorizzate, anche se non combaciano più con la realtà in cui si vive. D’altra parte, alcuni di coloro che si propongono come portatori di valori sani e di spirito di rinnovamento etico e politico non sono altro che agenti – magari a volte inconsapevoli – di meccanismi di dominio più grandi di loro. Lo si vede chiaramente nel dibattito – per lo più strumentale – riguardante la creazione di un nuovo partito nazionale sardo o di un partito sardo della sinistra. Feticci sventolati per abbindolare spiriti onesti e volenterosi, facendoli distrarre dalle vere manovre che intanto sono in azione dietro le quinte o dai veri obiettivi perseguiti dietro questa bandiera di comodo.
Anche l’ambito indipendentista è percorso da questa faglia frastagliata. C’è del marcio anche da queste parti, inutile nasconderselo. Troppo alta è la posta in gioco, in una fase di transizione in cui sono a repentaglio interessi consistenti, senza che si sia ancora trovato un accordo soddisfacente su una finzione altrettanto efficace di quanto è stata l’autonomia regionale. Inevitabile che i tentacoli della corruzione e del controllo interessato arrivino anche là. Qualcuno pensa di essere più furbo degli altri, come capita sempre, e crede di potersi servire di relazioni e personaggi che in realtà hanno tutt’altri scopi, ben altre risorse al proprio servizio e punti di riferimento decisamente più solidi. È un gioco di potere: chi ha in animo di produrre un significativo miglioramento della nostra condizione storica e di porre le basi per la nostra emancipazione collettiva farebbe bene a soppesarne tutti gli elementi e tutte le conseguenze. E soprattutto, bisognerebbe tentare sempre di tenersi lontani dalle lusinghe al proprio ego, per quanto grande possa essere la considerazione che ne abbiamo. In questo, non c’è alcuna differenza antropologica tra indipendentisti, autonomisti, nazionalisti italiani, ecc. Quel che cambia sono le scelte che si fanno e i motivi profondi per cui si fanno. E anche con chi le si fa.
Non potremo certo meravigliarci se nelle prossime settimane vedremo strani rimescolamenti, negli schieramenti politici sardi. Ex avversari che si accordano, finti nemici che occupano nicchie di consenso diverse per poi lavorare di comune accordo sulle cose che importano davvero, manovre destabilizzatrici e anche spruzzi di fango, laddove servisse. Sarà difficilissimo per i sardi districarsi nella fitta trama di alleanze vere o presunte e di cointeressenze mascherate che si dispiegherà da qui alle prossime elezioni per il consiglio regionale. Specie laddove non prevalga il senso di appartenenza a una sfera più estesa del proprio interesse personale, familiare o corporativo. Eppure, questo è il gioco ed è già cominciato. Dal suo esito discenderanno conseguenze non da poco, per la sorte della Sardegna. Chi pregava di poter vivere in tempi interessanti, è esaudito.