Uno dei dati più significativi e meno sottolineati dell’ultima tornata elettorale aministrativa è stata l’elezione di tante donne alla carica di sindaco. Tante, in termini relativi, s’intende. Nondimeno, dato che di prime cittadine ce n’erano già diverse in Sardegna, sarebbe interessante sapere quante siano in totale e in percentuale assoluta e magari anche conoscere il dato delle donne elette nei consigli comunali.
Sulla partecipazione femminile alla politica si spendono periodicamente molte parole, salvo poi lasciare tutto come sta. In Italia la situazione e molto grave, in altri paesi europei va meglio, a volte molto meglio. Questo si sa. In Sardegna non abbiamo un quadro esaustivo, almeno in termini statistici, su questo tema. I mass media sono sempre appiattiti su elementi narrativi tratti dalla realtà italiana e non dispongono o non si curano di usare strumenti analitici più calibrati sulla realtà sarda. Le nostre università non sempre forniscono studi e pubblicazioni sufficientemente elaborati e puntuali in materia.
Per stringenti ragioni storiche non si può sottoporre la questione femminile in Sardegna alle categorie interpretative italiane. Troppo diverse le vicende storiche, le tradizioni accumulate, i costumi, le mentalità e anche gli apparati normativi che presiedono al rapporto tra i sessi e al ruolo della donna nella società.
Già ai tempi delle codificazioni romane esistevano dei distinguo giuridici tra la nuzialità sarda e quella propriamente italica o greca. La forma di matrimonio sarda era sostanzialmente paritetica, a differenza delle altre. Il che testimonia di altri e meno conoscibili aspetti culturali e sociali. Tale tipicità si è protratta nel tempo, emergendo ad esempio nella codificazione giudicale, di cui la Carta de Logu arborense è l’esito più alto e duraturo. La regola della trasmissione matrilineare del cognome alle figlie femmine (a volte adottata anche dagli uomini) è testimoniata fino ad epoche storicamente recenti. Idem il diritto alla successione ereditaria. Le dinamiche profonde e diffuse sulla nuzialità, sulla disponibilità di sé e del proprio corpo, sulla soggettività giuridica e sociale della donna in Sardegna hanno conservato caratteristiche peculiari fin dentro la contemporaneità.
Come segnala Lilli Pruna nel rapporto sul lavoro in Sardegna del 2010, a questo proposito è notevole il fatto che la rilevanza sociale delle donne, nelle nostre comunità, ha rischiato di essere ridimensionata paradossalmente dalla diffusione di costumi e ruoli moderni. La donna sarda nel secondo dopo guerra tendeva ad essere relegata al ruolo di “casalinga”, senza più alcuna soggettività pubblica. Sembra che le donne sarde abbiano reagito a tale rischio appropriandosi, tempestivamente e più degli uomini, delle possibilità offerte dalla scolarizzazione di massa e dell’accesso all’istruzione superiore.
Un altro dato su cui riflettere è quello relativo alle dinamiche del mondo del lavoro di questi anni. Alla stagnazione o alla perdita di occupazione per gli uomini ha risposto una tenuta e una crescita dell’occupazione femminile. Molte donne, per consentire alla proprie famiglie di mantenere il tenore di vita conquistato o di non farlo diminuire troppo, sono rientrate nel mondo del lavoro. Spesso probabilmente accettando mansioni e occupazioni che gli uomini disdegnano, o adattandosi a situazioni in cui è richiesta maggiore elasticità.
Nel quadro di precarizzazione generalizzata, parrebbe che le donne sarde siano riuscite a reagire meglio. Chiaramente questo può essere preso anche come un segnale di allarme, dato che non sempre si tratta di libere scelte, ma della risposta empirica a situazioni difficili. Tuttavia, non si può negare che somigli molto a una conferma della storica partecipazione delle donne sarde alla vita sociale come soggetti a tutto tondo, attivi e riconosciuti. Il che non è un dato scontato e così diffuso, in ambito mediterraneo (e non solo).
Il fatto che molte donne abbiano deciso di cimentarsi in politica e siano arrivate a governare le proprie comunità non deve dunque stupirci come dato in sé. Non in Sardegna. Eppure ci interroga ugualmente, forse a maggior ragione.
L’accesso delle donne ai ruoli della politica, della amministrazione pubblica e privata, ai ruoli di prestigio e di potere è un segnale di salute ed equilibrio di una società. Ma non possiamo gloriarci di risultati che discendono da elementi culturali profondi, arrivati a noi come inerzia storica, senza curarci del livello politico e culturale più immediato ed attuale della questione femminile. Il mito del matriarcato sardo è a lungo servito per rimuoverla dalla nostra agenda politica e mediatica.
Ignorare o derubricare a fenomeno marginale il successo di tante donne nelle elezioni amministrative sa dunque più di rimozione che di presa d’atto di una tendenza. Invece sarebbe doveroso parlarne, studiare i dati, cercarne le connessioni con le dinamiche socio-economiche e culturali, ricavarne consocenza e – da essa – progettualità politica.
Non sembra che l’attuale classe dominante sarda abbia questa propensione. È solo l’ennesimo dei suoi peccati. Non il più veniale.