Ieri, 21 settembre 2010, è andato in scena uno strano psicodramma, nell’aula del consiglio regionale sardo. Nell’ambito di una sessione intitolata pomposamente alle “riforme”, sono state discusse alcune mozioni presentate da diversi consiglieri regionali, le quali per lo più trattavano il tema della revisione dello statuto regionale e/o della riforma complessiva della stessa autonomia speciale della Sardegna nell’ambito dello stato italiano. La prima di queste mozioni era anche quella che ha destato più sensazione. Presentata da Paolo Maninchedda, esponente del PSdAz, e altri, trattava esplicitamente il tema della indipendenza.
Proprio così: nell’aula di una assemblea legislativa formalmente inserita nell’ordinamento giuridico italiano si è discusso di indipendenza da quel medesimo ordinamento giuridico. O almeno, in astratto sembrerebbe così.
Nei giorni precedenti avevamo assistito a uno strano dibattito a mezzo stampa, ospitato nelle colonne del quotidiano La Nuova, a cui avevano preso parte diversi esponenti politici sardi (dal redivivo Mariotto Segni, a Guido Melis, allo stesso Paolo Maninchedda, ecc.). Per lo più per prendere le distanze anche dalla semplice impostazione del discorso, o per delegittimare la sola possibilità che fosse contemplato nell’agenda politica e mediatica sarda.
La sequela di interventi, in maggioranza ostili alla prospettiva indipendentista, non è stato un grande servizio alla collettività. Scarsissima cognizione di causa e luoghi comuni estratti dal dibattito avvenuto novanta anni fa sulla stessa materia, e con le stesse argomentazioni. Ma anche la difesa dell’idea indipendentista è risultata scialba, quando non palesemente contraddittoria.
Il dibattito in consiglio regionale non ha certo migliorato il livello della discussione. Già il fatto che il promotore dell’iniziativa, Paolo Maninchedda, abbia subito fatto diversi distinguo, assicurando l’intenzione di seguire percorsi istituzionali, alle condizioni normative date, e abbia parlato di indipendenza in termini dichiaratamente federalisti (scombinando un po’ la semantica), ridimensionava parecchio la portata politica di tutta l’operazione. Chi lo ha seguito nell’ordine degli interventi ha visto bene di edulcorare ancora di più la pillola, disturbando nel loro sonno eterno nientemeno che Camillo Bellieni ed Emilio Lussu, mai come in questa circostanza chiamati in causa come veri numi tutelari dello status quo. E per un ottimo motivo, come sa chiunque ne abbia frequentato le biografie e gli scritti.
I due padri del sardismo e dell’autonomismo furono i più acerrimi nemici del “serpente marino”, dell’infida bestia chiamata “separatismo”. Strenui promotori della tutela della civiltà italiana sulla miserabile Sardegna, portatrice a sua volta di una nazionalità “abortiva” o “fallita”.
A parte questi richiami all’auctoritas di defunti che non possono replicare, come capita sistematicamente in quest’epoca di decadenza, le parole sono state violentate e piegate a significati opposti a quello etimologico o quanto meno diffusamente accolto. Così l’indipendenza diventa una specie di autonomia un po’ più accentuata, sempre facendo salva la legittimità della sovranità generale italiana. Oppure diventa un maleficio da esorcizzare, una minaccia di solitudine e di povertà. Ossia, precisamente la condizione che la Sardegna sta vivendo in questi stessi giorni e che discende direttamente dagli assetti ereditati dagli ultimi centocinquant’anni di fallimentare inserimento nell’alveo statuale italico.
Si rovesciano significati, si sostituiscono cause ed effetti storici, si rimescola un po’ il fango in cui si sguazza, rendendolo ancora più torbido. Il tutto mentre incombono problemi che meriterebbero ben altra attenzione da quella fin qui riservata loro da questa classe dominante per conto terzi, da questa congrega di mediocrissimi furbi.
La risposta dei sindacati, poi, è ben degna di una parte in questa commedia. Per il 25 settembre hanno programmato una grande manifestazione specificamente destinata ad affrontare l’annosa “vertenza entrate”. Come molti sanno (o forse no), l’Italia è debitrice verso la Sardegna di un numero di miliardi di euro che va dai sei a più di dieci (a seconda delle stime). Il tutto deriva dal mancato versamento da parte dello stato centrale della quota di imposte riscosse in Sardegna spettanti al bilancio della regione. Lo stato riscuote i tributi fiscali per conto della Sardegna e da anni si “dimentica” di versarle quanto le spetta per statuto (ossia, per legge di rango costituzionale: art. 8).
Ci sarebbe di che sollevare l’opinione pubblica, di che mettere in discussione subito e senza mezzi termini tutto l’apparato giuridico che tiene vincolata la Sardegna agli interessi e ai problemi italiani. I sindacati (in primis quelli italiani in Sardegna, ovviamente), balbettando non si sa bene quali rimostranze, pretenderebbero invece nientemeno che l’ennesima elemosina statale sotto forma di un nuovo Piano di Rinascita.
Per gente dalla memoria corta questa potrebbe sembrare anche una buona idea. Ma per fortuna c’è anche chi la memoria non l’ha persa e sa benissimo cosa siano stati i Piani di Rinascita per la Sardegna, tra anni Sessanta e anni Ottanta. Operazioni di sopraffazione economica, di clientelismo e di favoritismo dei soliti furbi, con conseguenze deleterie sul tessuto produttivo e socio-culturale dell’Isola, nonché sull’equilibrio tra demografia ed ecosistema.
La vacuità del dibattito sull’indipendenza (per altro citata in un’accezione fuorviante, come abbiamo visto) e queste prese di posizione da parte di chi dovrebbe rappresentare gli interessi dei lavoratori offrono perfettamente il quadro del vuoto spinto di elaborazione politica e di prospettiva a breve, a medio e a lungo termine, in cui siamo prigionieri. Nessuno che dia l’idea di sapere cosa fare o almeno a cosa aspirare per il futuro immediato e meno immediato. In attesa che la baracca cadente dello stato italiano corra in soccorso di questa figlia negletta e dimenticata, relegata nello sgabuzzino.
Non ci sarà alcuna emancipazione storica se non si procederà a un profondo ricambio della classe politica e dirigente. Non ci sarà alcuna prospettiva di benessere per i sardi se non ci assumeremo la responsabilità collettiva della nostra sorte. Servono altre dimostrazioni?