Oggi la Federazione della Stampa proclama una giornata di agitazione e protesta in difesa della libertà d’espressione e dell’art. 21 della Costituzione italiana. Ci si è resi conto che la libertà dei giornalisti e soprattutto il diritto dei cittadini ad essere correttamente e compiutamente informati in Italia non è che godano di ottima salute.
Meglio tardi che mai, sarebbe da dire. Se non che, si avverte un vago sentore di ipocrisia in tutto ciò. Non tanto perché la libertà della stampa e dei giornalisti in Italia non sia minacciata, ma perché non lo è certo solo da oggi. E per varie ragioni.
Intanto, non è solo un problema relativo al pauroso conflitto di interessi del Presidente del Consiglio (il migliore della storia). Quello esiste da tempo e nessuno si è mai sognato di risolverlo, ai piani alti del potere politico italico. Ma non è il solo. E’ tutto il sistema dell’informazione italiana che soffre di conflitti di interessi intrecciati e plurimi, che ne inficiano alla radice ogni reale funzione civica e democratica. Nei consigli di amministrazione dei gruppi editoriali, a parte legami societari trasversali che ne limitano grandemente il pluralismo, siedono rappresentanti di grandi gruppi industriali e bancari che non hanno certo l’interesse a promuovere la trasparenza e il controllo critico, che pure la libera stampa dovrebbe garantire. Inoltre, lo scopo dei giornali, da tempo, non è quello di vendere più copie possibile per ricavarne il proprio sostentamento economico, ma quello di “vendere” i propri lettori agli inserzionisti pubblicitari. Anche qui, emerge chiaramente l’impossibilità da parte delle testate giornalistiche di scontentare quelle che sono le fonti principali del proprio profitto: gli operatori economici che riversano le loro comunicazioni commerciali sulla carta stampata. Il fatto che questo flusso di denaro stia scemando drasticamente da tempo (prima verso la TV e specialmente verso le televisioni che fanno capo a Berlusconi, ora anche verso internet) spiega la grande crisi del settore. Questo avviene non solo in Italia, quindi non si tratta di un fenomeno riconducibile a censure governative o boicottaggi politici. E però è vero che in Italia assume contorni patologici più seri che altrove.
Tuttavia, rimane appunto il dubbio che il vero problema stia da un’altra parte. I giornalisti in Italia sono una sorta di corporazione, che gode di garanzie non indifferenti, sia dal punto di vista retributivo, sia da quello previdenziale, per non dire degli altri vantaggi accessori della professione. L’accesso ai ranghi della quale è controllato e filtrato dall’apposito Ordine. Questo è un rimasuglio dell’epoca fascista che nessuno è riuscito a cancellare o anche semplicemente a riformare nei sessant’anni della repubblica democratica. L’accesso a ruoli importanti nelle redazioni, poi, avviene secondo criteri di cooptazione che troppo spesso rispondono a logiche diverse da quelle della capacità e del merito (verrebbe da dire “all’italiana”). Tale fenomeno degenerativo è palese nell’ambito del giornalismo televisivo, ma è ben presente anche presso le testate cartacee, fatte salve poche e marginali eccezioni.
Tutto ciò, se declinato in salsa sarda, acquista una dimensione ancor più patologica e preoccupante. In Sardegna non esiete affatto una informazione libera e plurale. Su tre quotidiani, uno – l’Unione sarda – appartiene a un gruppo economico con forti interessi immobiliari, nonché politicamente legato al gruppo di potere di Silvio Berlusconi; un altro – La Nuova Sardegna – appartiene a un gruppo editorial-finanziario esterno, facente capo a Carlo De Benedetti; un terzo appartiene a una rete di testate locali controllate da una società anche qui esterna alla Sardegna. Quanto alle televisioni, la più seguita appartiene allo stesso gruppo berlusconiano che pubblica l’Unione; la seconda in ordine di diffusione e influenza è di proprietà di un grosso gruppo immobiliare; entrambe trasmettono anche attraverso il satellite e sono una delle principali fonti di notizie da e sulla Sardegna per i numerosi emigrati sardi nel mondo, Italia compresa. Le altre emittenti private hanno rilevanza molto minore, sia quanto a pubblico, sia quanto a influenza. Da sottolineare la scarsa diffusione in Sardegna della banda larga e il conseguente sottodimensionamento sistematico dell’accesso alla Rete, unica alternativa all’informazione televisiva e cartacea.
Questa è la situazione. Sperare che ciò risponda alle esigenze di informazione e formazione della pubblica opinione è del tutto insensato. Sostenerlo è pura malafede.
Una prova di come funzionano le cose? Eccola qui, dal sito di Michela Murgia. Più chiaro di così!