Un’espressione geografica

Quella che attraversa l’Italia in questo periodo non è una crisi contingente, l’esito locale di un momentaneo sbandamento della civiltà occidentale. La fase di crisi di civiltà esiste, intendiamoci, e l’Italia non può esserne esentata. Ma quel che succede nel bel paese dove il sì suona è qualcosa di parzialmente diverso e più profondo, che si somma ai problematici processi in corso e li complica ulteriormente, investendo l’ambito più propriamente etico, la produzione di senso, i processi di identificazione collettiva, il tessuto connettivo di una comunità che si definisce, a cuor leggero e apoditticamente, “nazionale”.

Il guaio è che le collettività umane hanno in sé tanto il proprio presente quanto il proprio passato. La storia umana procede per accumulazione, non per rimozione e sostituzione. Il passato sedimenta e si stratifica, a volte crea dei giacimenti di materia culturale che poi riemergono come polle di una vena sotterranea mai estinta del tutto. Una sorte di ereditarietà bio-storica ineludibile. Nel caso dell’Italia, quel che si sconta è un multiforme peccato originale, sommatoria di problemi accumulatisi in ognuna delle componenti umane e geografiche che concorrono a formare questo strano oggetto storico, il quale a sua volta, nei modi e nei tempi della sua conglomerazione istituzionale unitaria, lungi dal risolverli, non ha fatto che aggravare quelli esistenti e aggiungerne degli altri.

Perché l’Italia in fondo è solo un’espressione geografica, come sosteneva lucidamente il grande ministro asburgico Metternich. Tale sentenza, fattaci studiare a scuola con una calibrata dose di indignazione nazionalista, lungi dall’essere un insulto è semplicemente la descrizione obiettiva della realtà. L’Italia non esiste, se esiste è inconoscibile, se si può conoscere è incomprensibile. Perché è un non-senso storico. Un coacervo forzato di entità politiche e culturali eterogenee, tenute insieme da un sistema egemonico alquanto malfunzionante.

Pensiamo solo alla lingua. Un idioma artificiale, prettamente letterario, codificato da Pietro Bembo e dall’Accademia della Crusca tra XVI e XVII secolo e, al momento dell’unificazione politica italica (1861), ancora sconosciuto alla stragrande maggioranza di coloro che da un giorno all’altro avrebbero dovuto usarlo (DE MAURO, 1963). Uno strumento di sopraffazione piuttosto efficace, ma certo non un elemento di emancipazione storica e di coesione interna tra le componenti sociali del nuovo stato.

La visione politica che condusse alla creazione quasi a tavolino dello stato italiano unitario era una visione asfittica, reazionaria, ostile a qualsiasi pulsione “progressiva”, vincolata a interessi di bottega ben definiti (come spiegava efficacemente Gramsci con la sua definizione di “blocco storico”). Tutta la vicenda storica italiana è contraddistinta da una evidente debolezza etica della sua classe dominante, dal totale disprezzo di questa verso qualsiasi cosa possa essere definito “bene comune”, da un’avversione profonda agli strumenti politici basilari che pure la modernità ha prodotto (libertà fondamentali, etica pubblica, meccanismi di controllo istituzionale). La disarticolazione culturale e politica delle masse – tenute il più possibile a distanza dai processi decisionali, usate senza scrupoli come carne da macello a basso costo in guerra, o come “pubblico” plaudente della rappresentazione politica sotto tutti i regimi – non ha mai fatto maturare una vera partecipazione popolare democratica alla vita collettiva, sia culturale sia politica. La tipica avversione italica per la complessità e gli sforzi di elaborazione teorica e risoluzione pratica dei problemi che essa comporta ne è sia una causa lontana, sia un effetto duraturo, abilmente perpetuato. L’elitarismo e la stringente e patologica autoreferenzialità corporativa delle categorie sociali avvantaggiate, ereditati dal passato signorile, hanno imposto le proprie logiche anche allo stato unitario, a dispetto dei rari momenti di resipiscenza della classe dominante.

Oggi si assiste all’ennesima replica di un copione già visto. Il tessuto economico, sociale e anche morale dello stato italico sembra in fase di rapida lacerazione, apparentemente a causa di spinte esogene. In realtà, la crisi mondiale è solo un pretesto che consente alla classe dominante di attutire gli effetti peggiori delle dinamiche economiche contemporanee facendone pagare il prezzo alla massa asservita e imbelle dei cittadini/consumatori/telespettatori. Se si guarda bene, oltre la patina ideologica egemonica, tutte le misure prese o previste (di tipo finanziario, economico, sociale, culturale, ecc.), non sono che mezzi per garantire i vantaggi di chi può intervenire, in un modo o nell’altro, sulla formazione delle decisioni politiche. I vari personaggi che si affastellano sul palcoscenico mediatico non sono che prestanome e rappresentanti di centri di interesse concreti che hanno ben poca convenienza a mostrarsi per quello che sono. La debolezza culturale della stragrande maggioranza degli italiani, abilmente coltivata nel tempo, ne sancisce la legittimità dell’azione e l’effettività del potere. D’altra parte, la costante ma infruttuosa azione della parte indipendente della magistratura, le denunce dei pochissimi operatori dell’informazione che abbiano ancora accesso al circuito mediatico mainstream, le forme di resistenza culturale, intellettuale ed economica di componenti sociali più responsabili, si miscelano in un embrione di alternativa civile al sistema esistente senza avere i numeri per fare “massa critica” e imporsi storicamente alla collettività.

In definitiva, non c’è nulla di emergenziale in quello che succede: è pura fisiologia di un organismo malato per sua origine e natura. Applicare dei rimedi drastici significherebbe causarne la morte. Se si mettesse in moto un vero processo di disvelamento e di presa di coscienza collettiva, l’Italia rischierebbe seriamente di scomparire dal novero degli stati. Perché è pura rappresentazione, mistificazione storica e culturale. Tutto ciò che ne sappiamo è falso o corrotto. Prenderne coscienza ne sancirebbe la fine.

Quanto tutto questo possa essere deprimente, se lo si osserva dalla Sardegna, emerge da sé. Noi che non siamo nemmeno per finta italiani (chi ci crede seriamente?), ci troviamo a condividere e spesso a essere i più strenui difensori di un sistema socio-culturale che ci vede necessariamente destinati alla marginalità e alla sottomissione. Ma non per nostre pretese debolezze ataviche (la “nazione abortiva” o “fallita” di Bellieni e Lussu), bensì per ragioni obiettive di carattere strutturale, attinenti ai rapporti di forza tra entità politiche e agli interessi concreti delle classi dominanti.

In ogni caso, se lo stato italiano dovesse finalmente smembrarsi, lasciando libero sfogo alle sue reali componenti storiche, credo che nessuno, tranne alcuni di quelli che hanno tratto vantaggio da questa grottesca messinscena politica, avrebbe di che lamentarsi. Noi sardi meno di tutti.