La Sardegna e la Modernità: analisi di un processo in corso

(Articolo uscito su “Sardegna mediterranea” n. 23, aprile 2008)


 

Premessa

In via preliminare occorre dare una definizione chiara di ciò che da qui in avanti chiameremo Modernità. Con tale nome convenzionalmente si definisce un’epoca che di solito prende avvio intorno al 1500 d.C. e sfocia in quella che la storiografia etichetta come età contemporanea1. Sono confini incerti e diciamo pure di comodo. Non in tutti i sensi né in modo uguale in tutti i luoghi si può delimitare un’epoca siffatta. Tralasciamo la considerazione che la maggior parte dei processi e degli eventi che la storiografia attribuisce come fondanti e strutturali alla Modernità hanno radici assai profonde, vuoi nell’età romana, vuoi nell’età medievale. Nessun fenomeno umano nasce dal niente. Ma la distinzione tra moderno e contemporaneo è piuttosto arbitraria e fondamentalmente ingiustificata: i modelli produttivi, culturali e politici sono ancora oggi prevalentemente quelli della modernità europea (e nord-americana). Il fatto che da tempo siano entrati in crisi non significa che siano già stati totalmente sostituiti da qualcosa di diverso.

Quali sono dunque gli sviluppi che consentono di distinguere l’era moderna da ciò che la precede? La risposta non può che essere complessa. A seconda dei punti di vista e dell’oggetto specifico di ciascun discorso si può esaltare questo o quell’elemento, privilegiare un esito, amplificare la portata di un singolo sviluppo. In sintesi ciò che caratterizza la Modernità è un profondo e duraturo processo rivoluzionario rispetto ai modelli produttivi, culturali, politici dei secoli precedenti. All’economia del baratto, fondata su beni a scarso valore aggiunto, provenienti dalla terra o dal modesto contributo dell’uomo, si sostituisce inesorabilmente un’economia monetaria e capitalista, mercantile e poi industriale. La forza sociale dominante diviene la borghesia che, più o meno traumaticamente, mette da parte o relega a compiti residui la vecchia classe signorile di stampo feudale. I privilegi, i vincoli, gli usi civici e comunitari perdono rilevanza a favore della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione. Alla cultura comunitaria, ciclica e orale, di tipo olistico2, si sostituisce una cultura lineare e sequenziale, sempre più analitica e specialistica, guidata prima di tutto dall’evoluzione delle tecniche tipografiche3, dal nuovo pensiero scientifico laico e dal progresso tecnologico. L’ideologia della casta viene sconfitta da quella del dinamismo sociale basato sulla fortuna monetaria individuale. I sistemi politici si coagulano e si addensano, eliminando la pulviscolare frammentazione della sovranità caratteristica del medioevo. Nasce il nazionalismo e viene creato il tipico ordinamento giuridico moderno: lo Stato. Prima quello assoluto; poi, attraverso diverse fasi e con diverse gradazioni, quello di diritto.

Tali fenomeni, sorti qua e là in Europa intorno all’anno Mille dell’era volgare, subiscono una accelerazione e raggiungono il loro apice in Occidente dopo il 1500 (di qui la scelta convenzionale di questa data) e soprattutto tra l’ultimo quarto del XVIII secolo e il primo decennio del XX.

La deflagrazione che porterà la Modernità ai suoi massimi trionfi è innescata da due detonatori: la prima rivoluzione industriale e la Rivoluzione Francese. Da lì nasce la spinta che trasformerà il XIX secolo nel secolo europeo per eccellenza, con la definitiva affermazione e diffusione del sistema di produzione capitalista, l’incremento nel numero e nella diffusione di nuovi media (moneta, alfabetismo, mezzi di locomozione, macchine, poi radio e televisione e infine informatica), il consolidamento degli ordinamenti giuridici statali, l’espansionismo coloniale, le guerre globali (calde o fredde). Il sistema entra in crisi nel corso del XX secolo per la difficile conciliazione tra il mantenimento delle sue strutture portanti e l’irrompere sulla scena delle masse popolari e dei paesi non europei, nonché per gli scompensi nel reperimento e nella distribuzione delle risorse globali e per il deterioramento della biosfera.

La Sardegna

Con quali tempi e modi la Modernità arriva in Sardegna?

L’idea che si ha dell’Isola allo scoccare dell’era moderna e per gran parte della sua durata è di una terra irrimediabilmente arretrata e chiusa in se stessa. È un’idea semplicistica, che non corrisponde alla realtà. Nel corso dei secoli XVI e XVII, la Sardegna non brillava per prosperità, né per rilevanza demografica. Era coinvolta nelle vicende dell’impero spagnolo in un ruolo strumentale, se non proprio marginale, aveva un sistema produttivo ancorato ad usi tradizionali, poco dinamico e soggetto a improvvise crisi; la peste di tanto in tanto tornava a colpire e la vita culturale, vuoi nelle città, vuoi nei villaggi, era oppressa dalla cappa plumbea della Controriforma iberica. Poco di quanto la prima Modernità umanistica e rinascimentale andava elaborando arrivò sull’Isola in quei decenni. Pur tuttavia, la Sardegna non mostrava caratteri strutturalmente diversi dalla maggior parte delle regioni del Mediterraneo europeo e dell’intero continente nel suo complesso. In fondo molte zone rurali e provinciali dell’intera Europa in quel periodo si trovano nella stessa condizione.

La fase cruciale in cui veramente si avverte un distacco sempre maggiore tra l’Isola e il continente si aprì con il passaggio della corona del regno di Sardegna in capo ai Savoia (1720). In un momento in cui nuove forze sociali e intellettuali erano pronte a prendere il sopravvento definitivo sugli assetti dell’Ancien régime, il regno sardo si trovò vincolato, mercé gli accordi tra la casa regnante e l’aristocrazia isolana, alle leggi e ai costumi di governo del passato. Non che i Savoia e i loro rappresentanti in Sardegna avessero mai mostrato la ferma volontà di sperimentare nell’arte del governo le idee nuove del secolo XVIII. Le poche e tarde misure di razionalizzazione delle strutture amministrative del regno vennero frenate e frustrate tanto dalla viscosità e dai lacci del regime feudale, quanto dal disinteresse verso le sorti della Sardegna da parte del medesimo governo sabaudo. D’altro canto, la casta aristocratica ed ecclesiastica sarda, tra le più rigide e conservatrici d’Europa, ebbe da produrre rimostranze, come ben si sa, solo quando i Francesi minacciarono di portare la Rivoluzione direttamente in casa sua4. Quel che ne seguì è ben noto: non solo la sollevazione baronale non ottenne alcun consenso alle proprie richieste di restaurazione5, ma rischiò di essere messa a sua volta da parte da un moto rivoluzionario che essa stessa aveva contribuito a innescare6. Da questo punto di vista, il fatto che G.M. Angioy e i suoi seguaci fossero riusciti in breve tempo a diventare una grave minaccia per l’ordine costituito, significa che in Sardegna i germi del nuovo che avanzava avevano in qualche misura attecchito. Non abbastanza per trascinare con sé le masse popolari, evidentemente. G.M. Angioy, giurista, quindi uomo istruito in una lingua e in una cultura diverse da quelle del villaggio, nonché imprenditore di successo, era in tutto un degno figlio del suo secolo. Ma le popolazioni delle campagne, preservate nei loro usi consuetudinari da una struttura produttiva e culturale che l’artificiosa sopravvivenza del feudalesimo aveva perpetuato, non erano in grado di assecondare una linea politica a loro del tutto incomprensibile, che insieme alle vessazioni e agli abusi dell’antico regime avrebbe eliminato gran parte delle strutture materiali e immateriali su cui si basava la loro stessa sopravvivenza7.

Così, la Modernità aspettò di essere introdotta in Sardegna da quella stessa classe di governo sabauda che così a lungo aveva evitato di cedervi. Tuttavia, la legislazione sulla chiusura delle terre (a partire dal 1820), la sostituzione dell’antica Carta de Logu col nuovo Codice di Carlo Felice (1827) e l’abolizione del feudalesimo (dalla fine del decennio successivo) furono misure calate dall’alto, senza alcuna considerazione per la situazione reale e per le conseguenze pratiche che ne sarebbero scaturite. Non produssero affatto un salto in avanti della società sarda, bensì semplicemente ne sconvolsero le dinamiche fondamentali. Imporre dei modelli produttivi e di gestione delle risorse così radicalmente diversi in una comunità culturalmente stabile da secoli non poteva che causare uno choc antropologico. In più si trattava di misure dagli effetti quasi totalmente negativi per gran parte della popolazione. Una cultura di matrice orale, con una visione circolare della scansione del tempo e della vita umana, inserita in un orizzonte di senso dove non contavano la ferrea sequenzialità produttiva capitalista e l’individualismo, né la semplificazione specialistica dei problemi, né la competenza alfabetica, non poteva sopportare senza traumi la sottomissione a un sistema di produzione materiale e simbolica tanto diverso. Non a caso si sollevarono spontaneamente vere e proprie ribellioni per almeno un cinquantennio e diventò endemico sino a tempi piuttosto recenti il rifiuto di modelli culturali e giuridici estranei, con un inasprimento dell’irriducibile resistenzialità culturale sarda8. Persino un evento drammatico come la Grande Guerra tramutò i lutti e la tragedia collettiva in una nuova fonte di risveglio identitario. Questo molto prima che l’elaborazione dotta ne scovasse le giustificazioni antropologiche e i mass-media ne facessero un feticcio folkloristico.

Nella lunga fase tra primo Ottocento e anni ’70 del Novecento la Sardegna vide aumentare in modo definitivo la sua distanza dal continente. Nel periodo del trionfo romantico e poi dell’espansione coloniale (diciamo tra 1830 e 1910 circa), la sua condizione era tanto esotica, che gli stranieri la annoveravano tra le terre cui dedicare proficuamente una esplorazione geografico-antropologica. La “nostra Patagonia” ebbe modo di definirla Giulio Bechi all’inizio del XX secolo9, con l’entusiasmo del portatore di civiltà in una remota regione selvaggia. D’altronde, quelli erano anni in cui qualsiasi manifestazione di insofferenza spontanea per l’ordine costituito era etichettata come criminale e ascritta all’indole “delinquenziale” della “razza” sarda10. Naturalmente la rimozione sistematica della coscienza storica e la riduzione a provincia marginale di una terra che aveva prodotto nel corso dei secoli più di una civiltà11 servirono perfettamente a giustificare e alimentare tale tesi.

Nel frattempo, l’emergente classe borghese isolana, che aveva condiviso lo spirito delle riforme sabaude e ne godeva i frutti, non si dava altro scopo che quello di omologarsi il più possibile ai costumi ed alle pulsioni della corrispondente buona società d’oltre mare. L’entusiasmo con cui nelle città sarde si accolse la decisione di Carlo Alberto di concedere l’Unione Perfetta con gli stati della terraferma (1847) non fa che mostrare il distacco profondo tra quella che doveva essere la classe dirigente dell’Isola e il resto della popolazione sarda12. La quale ultima non aveva alcun interesse all’utopistica integrazione sociale e politica col continente. In realtà, com’era naturale che fosse, al momento dell’Unità d’Italia in Sardegna era bassissima la partecipazione emotiva delle masse ai processi in atto. La stessa lingua italiana, ben poco praticata sulla stessa penisola, in Sardegna aveva un’applicazione ancor minore13. La massima parte dei sardi non la conosceva né ne sentiva il bisogno. Era una lingua in tutto e per tutto straniera, per di più strettamente legata all’alfabetismo: due ostacoli duri da superare. Le conseguenze dell’imposizione di una lingua e di una cultura aliena nel corpo vivo delle comunità sarde sono state drammatiche e si sono fatte sentire ancora e forse soprattutto dopo il 1945, quando la Sardegna, in un mondo in rapido cambiamento e a dispetto delle attese, sembrava inesorabilmente condannata a restare la più arretrata delle regioni italiane.

Sempre nel corso del XX secolo, la dirompente e spietata stratificazione sociale messa in moto dall’applicazione del modello capitalista ha prodotto disuguaglianze ben più difficili da metabolizzare di quelle antiche e consolidate. Il prevalere dell’economia monetaria, della produzione seriale e del consumo14, ha causato distorsioni e appetiti non maturati nell’alveo di uno sviluppo spontaneo. L’improvvisa possibilità di arricchimento individuale a prescindere da qualsiasi vincolo sociale ha destabilizzato le comunità15. La creazione di una classe politico-amministrativa parassitaria e clientelare, in sostituzione della vecchia e moribonda aristocrazia, ha garantito il mantenimento dell’Isola in uno stato coloniale utile a molti centri di potere esterni. L’indifferenza per le sorti materiali dei propri conterranei, salvo onorevoli eccezioni, caratterizzerà a lungo il ceto che guiderà le sorti dell’Isola fino a tutto il XX secolo. Inoltre, la distanza e la rivalità tra le varie comunità e tra i vari corpi sociali, incrementate dalla mancanza di investimenti produttivi, di infrastrutture all’altezza dei bisogni collettivi e di una reale ed efficace selezione della classe politica, sono state a lungo un enorme freno a qualsiasi pulsione di riscatto e di progresso. Le forze economiche reali sono state sacrificate in nome degli interessi speculativi e la perdurante frammentazione della società sarda è stata alimentata per gestire meglio clientele e affari lucrosi. Al di là della retorica, a lungo hanno prevalso logiche particolaristiche, secondo le quali i sardi per lo più si percepivano quasi solo come appartenenti ognuno alla propria famiglia, al proprio clan o, tutt’al più, alla propria comunità locale16.

In tutto ciò hanno avuto un ruolo non secondario, e sin dal XVIII secolo, i limiti dei mezzi d’istruzione e d’informazione (scuole, università, stampa, radio e poi TV), per lo più espressioni di una visione del tutto esogena, spesso vincolati a grandi interessi economici o politici particolari e poco inclini a rivestire il ruolo di coscienza critica dell’intera collettività. La duratura separatezza (linguistica e simbolica) dei media moderni rispetto alla cultura popolare sarda (che si è tentato a lungo di relegare nell’ambito dell’innocuo e poco significativo folklore “regionale”) ne ha fatto gli organi di una ristretta élite, per lo più cittadina, legata ad interessi spesso poco limpidi e di solito esterni all’Isola. Per questo i media sono stati quasi esclusivamente portatori e divulgatori di una mentalità solo apparentemente più emancipata, rispetto ai costumi tradizionali, ma in realtà semplicemente e drammaticamente provinciale e marginale, avvinta da un complesso di inferiorità insuperabile.

Conclusione

La condizione di ritardo che caratterizza la Sardegna tra XIX e XX secolo è dunque frutto, paradossalmente, della medesima Modernità, così come è stata imposta sull’Isola. Tanto che ancora oggi è perfettamente percepibile la giustapposizione tra i modelli produttivi, sociali e culturali tradizionali e quelli moderni17.

Quel che c’è di nuovo è che i mezzi offerti dalla nostra epoca, specie nel senso della rapidità e facilità di comunicazione e di scambio di informazioni, ridisegnando uno scenario più vicino alla cultura circolare del villaggio che a quella urbana meccanizzata e lineare18, producono un nuovo orizzonte di senso all’interno del quale è molto più facile ritrovarsi per una comunità che non abbia perso del tutto il legame con la cultura pre-moderna. Il monopolio dell’informazione da parte dei centri di potere che hanno sempre controllato i mass-media è ormai compromesso dal maggiore grado di alfabetismo e di istruzione nonché soprattutto dalla grande rottura culturale e epistemologica costituita dalla diffusione della Rete informatica19 e, parallelamente, dall’accresciuto interscambio economico ed intellettuale col resto d’Europa. In definitiva, le maggiori possibilità di confronto e interazione con altre realtà economiche e culturali attenuano fino ad eliminarla la condizione di svantaggio data dall’isolamento geografico.

Una variegata e composita classe sociale – che va dall’artigianato al settore agroalimentare, dal c.d. “terzo settore” ai servizi informatici, sino al mondo dell’editoria, della musica e del cinema – si sta dunque facendo largo a dispetto della pervicace occupazione dei ruoli di gestione e controllo delle risorse da parte della classe politica e para-politica. Si tratta di un fenomeno spontaneo di evoluzione sociale che impone sulla scena sarda una componente finora mai esistita, ossia quella classe intermedia, depositaria di saperi e interessi, produttiva sia in senso materiale che culturale, che in altre zone d’Europa già da tempo incarna la frazione dinamica e progressiva della società, quella che ha prodotto la Modernità stessa. In Sardegna sorge soprattutto in periferia, nelle zone interne e nei luoghi meno controllati dagli apparati speculativi, laddove il tessuto sociale e culturale non è stato lacerato o del tutto compromesso da artificiosi modelli esterni. È una novità rivoluzionaria, per l’Isola, in quanto promette di generare una nuova classe dirigente, del tutto autoctona ma non provinciale, aperta al mondo ma ben radicata nel territorio.

È presto per dire se questi segnali preannuncino frutti duraturi e una vera svolta economica, culturale e politica. Tuttavia è innegabile un aumento della consapevolezza diffusa circa il valore di ciò che la storia e la cultura sarde, insieme alle produzioni materiali tradizionali, rappresentano nel panorama internazionale.

Sembra dunque che alla fine dei conti, la Sardegna riesca a trovare gli enzimi per metabolizzare la Modernità, sia pure al tramonto, più grazie alla sua tipica inerzia storica e culturale che in virtù delle imposizioni e degli sforzi – vuoi interessati, vuoi maldestri e mal indirizzati – fatti dalle classi dirigenti degli ultimi trecento anni.

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Note

1Che comincerebbe dopo le guerre napoleoniche, intorno al 1815, con variazioni nazionali e locali.

2Tendeva cioè a vedere il mondo e la stessa esperienza umana come un tutto, articolato ma interdipendente nelle sue parti, una visione sistematica, diremmo oggi.

3L’invenzione e la diffusione della stampa sono considerate da molti studiosi le cause principali della Modernità.

4Dopo una lunga fase di propaganda politica attuata grazie ad agenti filo-francesi sull’Isola, nel 1793 ci fu un tentativo di conquista. Respinto, come si sa.

5Condensate nelle famose Cinque Domande inviate al re e da questi sdegnosamente respinte.

6Vedi sul punto: G. Sotgiu, Storia della Sardegna Sabauda, Roma-Bari, 1984.

7Anche in questo caso, vedi: G. Sotgiu, Storia della Sardegna Sabauda, cit.

8Di cui la duratura applicazione del c.d. codice della vendetta è solo un esempio emblematico. La “costante resistenziale” è stata teorizzata dal grande archeologo G. Lilliu. Sul Codice Barbaricino, vedi A, Pigliaru, Il banditismo in Sardegna, Nuoro, 2000.

9Nella presentazione del suo romanzo Caccia Grossa, 1914 (ora, Nuoro, 1997).

10Come intendeva dimostrare lo studio di A. Niceforo La delinquenza in Sardegna, del 1897.

11Diciamo almeno due: quella nuragica e quella giudicale. Ogni comunità umana esprime una cultura, ma non tutte le culture si evolvono fino a produrre una civiltà. In proposito, vedi: F. Braudel, Civiltà materiale, economia, capitalismo, Torino, 1983.

12Ma su questo tema specifico, vedi l’articolo Povertà e spopolamento, in “Sardegna Mediterranea”, n. 21, aprile 2007.

13In proposito, sono fondamentali gli studi di T. De Mauro. Vedi sul tema: M. Pira, La rivolta dell’oggetto, Milano, 1978.

14Sulla differenza tra la cultura materiale tradizionale e quella moderna, specie nel mondo pastorale sardo, vedi: B. Bandinu – G. Barbiellini Amidei, Il re è un feticcio, Milano, 1976.

15Illuminante in merito: M. Pira, La rivolta dell’oggetto, cit.

16Anche su questo tema rimando all’articolo Povertà e spopolamento, cit.

17Basti pensare alla differenza nei i modi di socializzazione quotidiana o nei sistemi valoriali di riferimento tra città e paese o tra categorie sociali diverse.

18Vedi in merito: M. MacLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, 1967.

19Il rapporto gerarchico tra chi informa e chi riceve l’informazione tende ad essere sostituito da un rapporto orizzontale, paritetico e circolare, in cui chi informa e chi riceve l’informazione variano a seconda delle competenze e dei contesti tematici, e in generale finiscono per coincidere.