Autodeterminazione e (è) democrazia

Populismi contro forze liberali e democratiche? Una rappresentazione di comodo dei conflitti sociali e politici in corso, dentro i quali si inserisce anche la questione dell’autodeterminazione della Sardegna.

Nei paesi di cultura europea (il cosiddetto Occidente, o giù di lì) pare che esista una forte dialettica tra due visioni politiche alternative. Da un lato la democrazia rappresentativa, di tipo liberale, dall’altro il populismo (di stampo reazionario, nazionalista e xenofobo, ma non solo).

Se ne parla diffusamente nel dibattito pubblico e sui mass media dando per scontato che esista solo questa possibilità dialettica. Il tifo da stadio così indotto costringe tutti a trovare buone ragioni per parteggiare a favore dell’uno o dell’altro.

Mi sembra una trappola politica particolarmente pericolosa.

La facile etichetta di populismo si è ormai imposta nell’uso, diventando egemonica, per definire qualsiasi proposta politica anti-establishment. È una definizione dispregiativa ma anodina, sostanzialmente priva di contenuto politico. Serve solo a demonizzare le varie forme di opposizione sociale e politica alla classe dominante globale. Quella che dispone di quasi tutto il denaro, che gestisce le risorse, che detta tempi e temi della cultura di massa.

Dall’altra parte si rivela con evidenza luminosa la natura fittizia delle contrapposizioni politiche che hanno caratterizzato il mondo europeo (in senso lato) dalla fine dell’URSS (1989-91) in poi.

Il neoliberismo di destra da una parte e quello di sinistra dall’altra. Pura fiction, dato che neoliberismo e sinistra sono due termini antagonisti e non possono stare insieme se non in un curioso ossimoro. Infatti uno dei due termini doveva necessariamente essere svuotato di tutto il suo senso reale, ed è toccato – guarda un po’ – a “sinistra”.

Le varie “terze vie” stile Tony Blair, o stile Bill Clinton (o governi di “centrosinistra” in Italia), ben lontani dall’essere una prospettiva conflittuale contro il brutale processo di appropriazione di valore che le élite mondiali hanno portato avanti nell’ultimo quarto di secolo, ne sono stati la faccia meno arcigna.

La dottrina dominante in tutti questi anni è stata quella della Fine della storia, come si sa. Il lavorio culturale che ha sostenuto la globalizzazione ne ha decretato l’inevitabilità “naturale”, se non la desiderabilità assoluta.

La stessa parola globalizzazione è un termine da neo-lingua, perché in verità si è trattato del più grande processo di privatizzazione (di ogni cosa, vita compresa) mai conosciuto dalla storia umana.

Sconfitta la grande opposizione internazionale a tale modello nel 2001 (tra la manifestazioni anti-G8 a Genova in luglio e gli attentati a New York e Washington nel settembre), negli anni a seguire le inevitabili pulsioni sociali e culturali ostili sono state tenute a bada grazie alla nuova retorica bellica, allo “scontro di civiltà”, alla lotta al terrorismo, alla crisi finanziaria (fatta pagare alle popolazioni e agli stati più deboli), ecc.

Senza naturalmente poterle bloccare del tutto, come dimostrano i vari movimenti tipo Occupy Wall Street o Indignados e la stagione del nuovo socialismo sudamericano. Tutti populismi anche questi, beninteso.

Tuttavia i (cosiddetti) populismi di destra, che oggi sembrano trovare sponda istituzionale nella Brexit e nella presidenza Trump, non sono affatto una forma analoga di mobilitazione antagonista verso il modello dominante. Di questo sono anzi più facilmente la salvezza. Con buona pace dei vari “comunisti per Trump”.

Lo spauracchio delle destre xenofobe e nazionaliste, sventolato con tanto zelo e tanta costernazione degli establishment di mezzo mondo, è un provvidenziale strumento di conservazione. Sia che servano a far vincere le forze “rispettabili” e “responsabili”, sia che conquistino il potere (per poco? chi lo sa!).

Alla fine quel che conta non sono queste finte dialettiche politiche, propagandate come le sole vere e legittime, ma la sostanza che esse nascondono. Che è molto banalmente il grande problema della democrazia.

Da questo discorso vengono sempre espunti infatti gli elementi davvero critici, quelli che mostrerebbero il “re” in tutta la sua nudità.

La vita degli esseri umani, delle loro comunità, la qualità e la natura delle loro relazioni con gli altri e con l’ambiente, i modelli produttivi e distributivi della ricchezza, la condivisione delle risorse, la solidarietà, l’accesso ai beni comuni, la libertà concreta e non meramente formale: tutto questo andrebbe rivendicato e rimesso al centro del discorso politico.

Opporre ai nazionalismi fascisti o para-fascisti tipo Le Pen, Orban, Farage, Salvini ecc. il liberismo globale, sia pure rivestito di diritti civili (in ambiti ristretti e mai pericolosi per i rapporti sociali vigenti), non è abbastanza.

La vera opposizione dovrebbe essere di segno ben più radicale e ben più profondo. Molto più significativi, in questo senso, i processi di autodeterminazione democratici, in Europa (come quello scozzese e quello catalano), o le lotte locali (penso, per fare degli esempi, al movimento NoTav della Val di Susa in Piemonte, o a quello dei Lakota contro il nuovo gasdotto tanto amato da Trump, in Dakota, USA).

Il conflitto reale è tra interessi di classe molto robusti e consolidati, ma messi in crisi dall’andamento dell’economia globale e dalle conseguenze concrete del modello di sviluppo dominante, e una diversa prospettiva socio-economica, non padronale, non predatrice, bensì solidale, egualitaria ed ecologicamente equilibrata.

Il socialismo storicamente ha fallito nella sua missione di contrastare gli effetti deleteri della Modernità capitalista. Non per questo sono da buttare via molte delle sue premesse e dei suoi strumenti di analisi.

Ovviamente, chi faccia di Marx e dei marxisti dei meri tramiti di un Verbo trascendentale, da applicare alla lettera, come capitoli di fede, tutto fa tranne lavorare all’emancipazione concreta degli esseri umani.

In ogni caso, non sono venute meno le ragioni per escogitare un modello di convivenza migliore, più giusto, più equilibrato, più rispettoso della vita e del mondo.

Tutto questo vale in Sardegna non meno che altrove.

Il sommovimento culturale in corso nell’isola, ormai duraturo e strutturale, ha alla sua base la necessità storica di fornire ai Sardi un modello socio-economico e politico compiutamente democratico, quale non abbiamo ancora mai avuto.

Una forma di convivenza che non sia subalterna a grandi interessi costituiti, a relazioni di potere asimmetriche, a processi di appropriazione delle risorse e del territorio rapaci e distruttivi.

Di questo si parla, quando si parla di autodeterminazione. Le cui forme concrete, relazionali, politiche e giuridiche dovranno discendere da un percorso a sua volta ampiamente condiviso e pienamente democratico.

Non facciamoci ingannare dagli schemi precostituiti. Il percorso dell’autodeterminazione dell’isola e di chi la abita riguarda questo, molto più che questioni identitarie.

Se si parte da parole chiave sbagliate, si finisce per far scattare la trappola a cui si voleva sfuggire.

Nel nostro caso le parole “nazione”, “stato”, “indipendenza”, “sovranità” possono rientrare nel quadro solo in funzione di una prospettiva politica che sia chiaramente democratica, sia nelle premesse, sia negli obiettivi, sia nei metodi.

In caso contrario rischiano di essere più facilmente strumento di conservazione e di maggiore impoverimento collettivo (materiale e culturale) che bandiere sotto cui lottare per la nostra emancipazione.

Intendiamoci, la nostra minorizzazione culturale e linguistica, la negazione della nostra storia, l’orientalizzazione antropologica (attuata anche grazie alle nostre università e agli stessi mass media sardi) e il razzismo istituzionale anti-sardo sono problemi di notevole consistenza storica e di evidente portata concreta.

Ma proprio per questo bisogna affrontarli al di fuori delle retoriche reazionarie basate sui miti delle origini, sulle pretese di purezza razziale, sugli essenzialismi etno-centrici alla Blut und Boden (rinvenibili anche in certe tesi ecologiste o decrescitiste).

La partita si gioca nel qui e ora, dentro le condizioni di fatto (e di diritto) esistenti e comporta la precisa coscienza della posta in gioco e degli strumenti necessari.

È la grande guerra per la democrazia e la libertà, per la giustizia sociale e per l’eguaglianza, per i diritti universali e per i beni comuni che riguarda tutta l’umanità.

Se a guidare le nostre pretese di autodeterminazione c’è l’egoismo, il rifiuto della complessità e la mancata conoscenza dei meccanismi di dominio globale in atto, non ne usciremo mai bene, nemmeno se – putacaso – domani mattina ci svegliassimo nella Repubblica di Sardegna indipendente e sovrana.

Questa consapevolezza deve guidare l’azione delle forze democratiche, delle forze che perseguono la vera emancipazione sociale e culturale dei Sardi. La linea di faglia sta qui.

È perfettamente comprensibile che le forze che dominano la scena vogliano scongiurare il compiersi del processo già in corso. Non esiteranno ad usare qualsiasi mezzo, per impedire che si formi in Sardegna un fronte politico autonomo e svicolato dalla logica della dipendenza.

Ivi compresa la creazione di una controparte di comodo, in funzione normalizzatrice, come potrebbe essere il Movimento 5 Stelle.

Oppure l’assunzione di tematiche, parole chiave e retoriche indipendentiste al fine di tradurle in una forma di conservazione riverniciata di novità (come è evidente nel progetto sovranista oggi alleato con il centrosinistra italiano).

Sono tutte possibilità già in atto, in modo più o meno manifesto.

Per ora il vantaggio è dalla loro parte, per via di una disponibilità notevole di potere, finanze, alleanze influenti.

Ma il processo di autodeterminazione in Sardegna è un fenomeno storico profondo e non sarà facile arrestarlo. Il rischio è che si riesca a rallentarlo abbastanza da renderlo sostanzialmente vano.

Una Sardegna ulteriormente impoverita in termini materiali, culturali e demografici da qui a qualche anno avrà ancora meno strumenti a disposizione per affrancarsi dalla dipendenza.

Per questo è necessario tenere le posizioni e anzi rilanciare le pretese democratiche con maggiore slancio, a dispetto delle situazioni avverse e delle manovre diversive.

Coscienti che siamo immersi in processi più ampli e generalizzati, ai quali non potremo sottrarci. Potremo giusto decidere come partecipare, se in veste di pedina sacrificabile e di mero oggetto storico oppure conquistandoci una soggettività collettiva autonoma.

Le condizioni storiche complessive, benché appaiano sfavorevoli, ci pongono però anche nella posizione di poter diventare un esempio virtuoso, nell’ambito di una fase storica decisamente regressiva come quella che stiamo attraversando. Salvare noi stessi e contribuire a salvare il mondo è un’ambizione per cui vale la pena spendersi.

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