Il colonialismo buono non esiste, ma…

La sfortuna della Sardegna è stata di essere un possedimento italiano anziché di qualche potenza coloniale seria. Se pensiamo alla possibilità che fosse occupata dai britannici, durante le guerre napoleoniche (come auspicava e chiedeva l’ammiraglio Nelson), ci rendiamo conto che non si tratta di una ipotesi peregrina, e il rammarico aumenta.

Naturalmente si tratta di una seconda opzione. La prima – potendo scegliere – sarebbe la vittoria della Rivoluzione e l’istituzione di una repubblica indipendente, con Giovanni Maria Angioy. Per quanto tributaria verso la Francia, almeno inizialmente, quello sarebbe stato un passo dal quale difficilmente si sarebbe potuti tornare indietro, o comunque un precedente troppo ingombrante per essere rimosso.

Invece sappiamo com’è andata: siamo diventati un possedimento oltremarino dello stato italiano unitario e ci è stato riservato un trattamento meno fortunato dei possedimenti coloniali inglesi e pesino di quelli francesi. A differenza di quelli, la nostra colonizzazione è stata solo un brutale esercizio di dominio, senza nemmeno il barlume di pragmatismo e lungimiranza che caratterizzavano in particolare l’espansione imperiale britannica.

Quest’ultima, arcigna come ogni forma di dominio economico e culturale, portava però con sé infratrutture, sistema sanitario, scuole, investimenti produttivi. Naturalmente prima di tutto a vantaggio dei colonizzatori. Ma è indubbio che questi fattori materiali e socio-economici tornavano anche a vantaggio delle popolazioni soggette, soprattutto nella prospettiva della conquista dell’indipendenza. Se si conoscono un poco i paesi usciti dalla colonizzazione inglese e alcuni di quelli che si sono liberati di quella francese, questo discorso risulta chiaro: ancora oggi molte delle infrastrutture civili sono le stesse o si basano su quelle dell’epoca coloniale.

In Sardegna tale visione del dominio, autoritaria ma non semplicemente rapace, si impose in epoca sabauda solo nella parentesi del ministero del Bogino, tra 1759 e 1773. Considerato come una delle figure più esecrabili della storia moderna e contemporanea dell’isola, Bogino invece fu uno dei pochi a lasciare qualcosa di buono ai Sardi, sia pure in modo preterintenzionale. Non a caso fu inviso all’establishment piemontese e a buona parte della stessa corte sabauda.

In definitiva, la Sardegna fu quasi sempre considerata solo come una preda da spolpare, come una possibilità di arricchimento brutale, come un giacimento di risorse da prelevare senza troppi riguardi e con il massimo utile possibile. Esattamente come poi furono le colonie africane. Del resto, e non a caso, la spedizione militare detta Caccia Grossa, del 1899, fu messa in pratica in Sardegna proprio tramite le truppe reduci dalle sfortunate (per l’Italia) campagne d’Africa.

Agli occhi della classe dominante piemontese prima e italiana poi la Sardegna non ebbe mai una propria soggettività con cui porsi in termini dialettici. Non ci fu mai un rapporto alla pari, o comunque il riconoscimento di una voce in capitolo sua propria per l’isola e per chi la rappresentava. Quello che ci appare così deprimente e inaccettabile oggi, ossia lo scarsissimo peso della politica sarda al cospetto dei governi e degli interessi nazionali italiani, è una costante della nostra storia contemporanea.

La nostra classe politica e la nostra classe intellettuale sono da molto tempo selezionate apposta per garantire il rapporto di forza diseguale vigente e la passività della Sardegna verso i disegni altrui che la riguardano. Prendersela oggi con i nostri parlamentari a Roma o con la giunta Pigliaru o con l’università italiana in Sardegna è un esercizio a volte doveroso, se si sta alla cronaca e alle necessità pressanti del nostro oggi, ma a uno sguardo più aperto si rivela una fatica di Sisifo. Quella che viviamo in questi anni penosi è in fondo la perpetuazione di una condizione di lunga durata e motivata da ben precisi fattori politici, mai venuti meno. Non la si può scardinare se si resta a livello contingente. Bisogna intervenire a livello strutturale.

Per farlo, tuttavia, è inevitabile, al di là persino delle propensioni di chi se ne occupa, innescare un processo di negoziazione e finanche di scontro aperto con lo stato centrale. Questo esito non discende da posizioni politiche soggettive, ma da fattori oggettivi di tipo geografico, storico, economico, sociale e culturale. L’estraneità della Sardegna al contesto geografico, storico, economico e sociale italiano non è una fissazione degli indipendentisti, ma un elemento obiettivo della nostra condizione storica con cui non si possono non fare i conti. A non volerli fare, ci si ritrova sempre in un cul de sac: per bene che vada, ci si arresta di fronte alla nostra impotenza, ma più spesso assistiamo alla partecipe complicità della nostra classe dominante nelle scelte volte alla nostra stessa devastazione.

Ci è andata male, purtroppo. Il caso o i giochi della storia ci hanno tirato un pessimo scherzo, facendoci finire nelle grinfie dello stato italiano e della sua corrotta e mediocre classe dominante. E ci abbiamo messo pure del nostro, come vediamo. D’altra parte, essendo mediocre e farabutto il mandante, non può certo essere migliore l’esecutore materiale.

Ma quel che irrita veramente, al di là delle evenienze dannose o addirittura drammatiche cui dobbiamo far fronte, è la prepotenza e la spocchia di chi fin qui ha goduto dei privilegi concessi dallo status quo e li rivendica come giustificati, delegittimando qualsiasi possibilità politica alternativa, da una posizione di forza tutt’altro che discendente da meriti specifici, quanto piuttosto – come è evidente – dai soli meccanismi della cooptazione nel sistema di dominio che ci affligge. Questo sì è fastidioso.

Gente che, in condizioni normali, faticherebbe molto a trovare un lavoro ben retribuito come quello che ha adesso grazie ai favori dei propri padroni si permette di alzare il ditino e pontificare contro chiunque metta a repentaglio i suoi disgustosi e immeritati vantaggi. Che si tratti di quadri politici dei partiti italiani (e dei loro complici locali), di funzionari pubblici, di miracolati baronali dell’università, o di sindacalisti che prosperano nell’eterna crisi, tutti costoro rappresentano un blocco storico eterogeneo ma a conti fatti estremamente coeso, che congiura a favore della nostra dipendenza.

Prima di prendersela astrattamente con l’Italia o addirittura con gli italiani (spesso vittime degli stessi meccanismi), e prima di lamentarci genericamente che le cose vanno male e magari attaccare chi propone di cambiarle, pensiamo alle magagne che siamo così bravi a procurarci da noi. Per esempio votando certi soggetti (sempre gli stessi) e consentendo a questo sistema marcescente e mortifero di perpetuarsi.

12 Comments

  1. Omar,apro il tuo sito e vedo che ancora campeggia “il colonialismo buono (etc)”, perciò, visto che non si è ancora voltata pagina, proverò a dirti sinteticamente un fastidio sottile su cui altrimenti, nell’accavallarsi dei temi, non mi sarei soffermato: questo recriminare (quanto vuoi relativo) sul passato, per fatti che ci hanno preso in un modo (sempre letto svantaggioso) e ci avrebbero potuto prendere in un altro (sempre letto migliore), che vedrebbero appunto il nostro destino sempre plasmato da altri da noi, con noi spettatori passivi e incolpevoli, ecco che basta dirlo così e so bene che non piace affatto neanche a te.
    Dici “purtroppo ci è andata male, il caso o i giochi della storia ci hanno tirato un pessimo scherzo facendoci finire nelle grinfie dello stato italiano e della sua corrotta e mediocre classe dominante”. Mi fa pensare a quei coniugi che in là nel matrimonio, quando nemmeno pensano più di potersi rifare una vita, recriminano sul coniuge che in qualche modo hanno dovuto accettare e subire, mentre allora avrebbero potuto sceglierne di migliori. Tu dirai che, al contrario, dobbiamo invece pensare che ancora possiamo rifarci una vita. Ma il punto centrale, a spingerci oltre (anche oltre il tuo riconoscere che a realizzare gli esiti di questo pessimo scherzo “ci abbiamo messo pure del nostro”), è quello che definisci l’“elemento obiettivo” della “estraneità della Sardegna” all’Italia (“al contesto geografico, storico, economico e sociale italiano”). A corollario trovi che la nostra classe politica, amministrativa e intellettuale che detiene posizioni di potere in virtù dell’asservimento ai mandanti della nostra colonizzazione non può che essere mediocre e farabutta come lo sono i detti mandanti.
    Perciò gli stessi sardi cui, buttandola alle ortiche, affidiamo la nostra rappresentanza (noi incapaci di inceppare con gli strumenti democratici il sistema di cooptazione del potere coloniale) sono mediocri e farabutti perché contaminati dai mediocri e farabutti sopra di loro.
    I piemontesi, dunque, i più mediocri e farabutti d’Europa, avrebbero contagiato e imposto le loro nequizie a tutti gli Stati pre-unitari annessi all’Italia?
    Ma cos’è l’Italia? Quali territori e popoli non sarebbero estranei all’Italia? Le Puglie sono italiane più della Sardegna? La Sicilia? Il Veneto? La Valle d’Aosta? Il Trentino? L’Alto Adige? Il Friuli? La Venezia Giulia? E perché gli abruzzesi dovrebbero riconoscersi in uno Stato alla pari dell’Alto Adige, anzi con meno autonomie e, probabilmente, meno finanziamenti? Meglio tornare agli Stati pre-unitari? E la Corsica con la Francia? E le Baleari e le Canarie con la Spagna?
    O forse che la classe dominante sarda negli stessi tempi dei giudicati non ha dato pure prove che dovresti definire mediocri? Forse che già non ipotecava sovranità a potenze straniere, cercando di uniformarsi alla loro civiltà e rinnegando in buona parte quella delle proprie campagne, peraltro discretamente sfruttate?
    Questo non volersi riconoscere anche italiani mi ricorda, insomma, l’aforisma di Groucho Marx: non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me (ah, se mi avessero portato nel loro club gli inglesi, allora sì avrei saputo dare il meglio di me).

  2. Mi accorgo che nel mio commento di stamane (anzi, di ieri mattina), centrato sul chiedere cosa sia l’Italia della quale troppo facilmente (mi pare) si indulge a dire la Sardegna non sia parte, non ho dato spazio al ribadire il favore circa l’opportunità di conquistarci una soggettività politica collettiva in quanto sardi, utile a rappresentare più incisivamente le nostre volontà sulle decisioni che riguardano le risorse del nostro territorio (da quelle materiali a quelle culturali). Su questo ho già convenuto altrove e, da ultimo, nella discussione su “Scorie nucleari e scorie politiche”, in cui appunto Omar chiariva che sentirsi anche italiani e desiderare una soggettività politica “in quanto sardi” sono aspetti che lui vede su due piani diversi, quindi non incompatibili, non in contraddizione.
    Stamane ho citato Groucho Marx, trattenendomi dal citare l’italianissimo Alberto Sordi; mi sembrava infatti opportuna anche una sua battuta che ricordavo: “a me mi ha rovinato la guerra”. Se la tiro in ballo stasera è perché andandola a cercare (e scoprendo così la paternità più antica di Petrolini, nonché la variante forse originale “a me mi ha rovinato la malattia”) ho trovato un’amaca di Michele Serra, del 27-03-14, che stigmatizzando Umberto Bossi, caduto in un’intervista nella frase “a me mi ha rovinato lo Stato”, finisce per dire:
    “È la consacrazione dell’eterno alibi italiano, rammodernato a seconda del periodo: ieri a rovinarci era la guerra, oggi lo Stato, domani le banche, dopodomani le donne; tutto pur di coprire l’insostenibile sospetto che la nostra sorte sia fondamentalmente nelle nostre mani, una responsabilità individuale da portare con dignità e non da addossare agli altri o al destino avverso. Che Bossi, lungi dall’essere l’antitaliano che avrebbe voluto essere, passi agli archivi come l’ennesimo arcitaliano, era già comprovato da una lunga catena di indizi: la finta laurea in medicina, la famiglia molto presente e molto esigente (diciamo così), lo spirito di clan ben più robusto dello spirito pubblico. Pareva, a uno sguardo distratto, che nella propria rovina il carico da novanta ce l’avesse messo lui medesimo. Invece no: a lui lo ha rovinato lo Stato. Umbertone come Gastone come Albertone.”
    Non so quanto l’a me simpatico Serra (che proprio a contrastare il leghismo padano disse avrebbe trascorso tutto il 2011, anno del centocinquantenario dell’unificazione italiana, con un segno tricolore addosso) possa risultare antipatico a Omar e a chi legge Sardegna Mondo.
    Umbertone come Gastone come Albertone …. noi, giusto per stare alla rima, avremmo i Barisone.

    1. A me Michele Serra piaceva quando dirigeva Cuore. Dopo sinceramente ho apprezzato molto meno il suo ripiegare su posizioni molto pavide, conformiste, reazionarie. Un’intelligenza passata al “nemico”. 🙂 Peccato. Ciò non toglie che su Bossi avesse ragione.Cosa che però con noi non ha nulla a che fare.

      Francesco, se tu vuoi sentirti italiano, non c’è santo che possa costringerti a pensare diversamente. E non sarebbe nemmeno giusto. Ma questo non è un problema e non ha alcun peso significativo nell’economia del discorso (almeno, nel discorso che faccio io). Non sta nemmeno sullo stesso piano delle questioni politiche che tu proponi, mescolandole impropriamente (secondo me).

      Rispondo qui anche al tuo commento precedente.
      Tu parti da presupposti astratti e ne fai una questione essenzialista. Metti sullo stesso piano cose che non fanno parte dello stesso insieme (le “regioni” italiane come entità storiche definibili e riconoscibili uguali alla Sardegna, in quanto “regione” italiana). Trovi che il nucleo della faccenda stia nell’identificazione etnica.
      Non è il discorso che faccio io.

      La Sardegna è sicuramente anche italiana, ormai. Se non altro in termini linguistici e di costume. Non del tutto, non in profondità forse, ma questa componente esiste nel nostro milieu culturale. Proprio come esiste una componente (più forte, ancora oggi, di quella italiana) di matrice iberica. E allora? Siamo là in mezzo da milioni di anni, da prima che esistessero gli ominidi. La Sardegna è stata colonizzata da popolazioni nomadi che provenivano almeno da tre aree diverse e nel corso dei secoli la sua popolazione, così formatasi e stabilizzatasi, ha ricevuto apporti esterni da tutte le terre circostanti, in vari modi e a vari livelli di profondità. Tutto questo è pacifico (dovrebbe esserlo) e non ha affatto a che fare con le scemenze sulle “continue dominazioni”. Ma poi?

      Dici che se la Sardegna non è Italia allora non lo è nemmeno la Puglia o l’Abruzzo o l’Alto Adige. Be’, intanto Alto Adige è una denominazione geografica abbastanza odiosa di suo: diciamo Sud Tirolo e siamo a posto. Lassù non solo non si sentono italiani, ma non lo sono proprio, se non nel senso di essere cittadini dello stato italiano. Almeno per quanto riguarda la popolazione autoctona tirolese. Quanto a pugliesi e abruzzesi, non so bene come si identifichino loro. So che ci sono vari movimenti neomeridionalisti e antiunitari, ma non mettono tanto in discussione la propria “italianità” culturale, come macro insieme entro il quale si inscrive la loro identificazione locale (che poi l’identificazione “pugliese” non esiste, esiste caso mai quella salentina, quella barese, ecc.), quanto piuttosto la propria appartenenza allo stato unitario italiano così com’è scaturito dal Risorgimento. Al di là delle punte più militanti e polemiche, la revisione critica del processo risorgimentale fatta nel Meridione italiano è abbastanza diffusa e radicata. Ma è tutt’alto genere di riflessione rispetto a quella che si può svolgere (e si svolge) in Sardegna. Proprio perché i presupposti storici sono diversi.

      Poi non so, tu contesti che esista un continuum storico-geografico italiano? OK, a te l’onere di dimostrarlo. Io penso che esista, almeno dall’età repubblicana romana. È un fatto di ordine fisico e geografico. Certo, la geografia ha inciso anche sulle diversità proprie del contesto storico italiano: la catena degli Appennini che divide est e ovest della penisola; i tre mari in cui è immersa, ognuno con i propri dirimpettai e i propri traffici peculiari; le differenze climatiche ta settentrione e meridione, ecc. Però è innegabile che nel corso dei secoli si sia formata una continuità, mai rinnegata del tutto. Le classi dominanti o dirigenti delle varie entità politiche italiane sono state sempre legate una all’altra, persino quando tra esse si accendeva il conflitto per l’egemonia. E una diffusione culturale piuttosto omogenea ha sempre denotato lo spazio tra le Alpi e la Sicilia, almeno dalla “Scuola siciliana” in su.

      Perché la geografia conta e il fatto che esista uno spazio geografico continuo, al di là delle partizioni locali dovute a orografia o a confini politici interni, ha il suo peso. Viceversa la Sardegna, per la sua distanza dalla terraferma, ha sempre mantenuto – riconosciuta da tutti gli altri – una sua propria fisionomia culturale e storica peculiare. Giusto o sbagliato che sia, questo è un dato di lunghissimo periodo. Non è detto che se ne debba fare un fattore politico, certamente. Ma negarlo è semplicemente sbagliato.

      Diventa un fattore politico nel momento in cui scendiamo sul terreno pratico. Quando entrano in gioco questioni economiche e strutturali, c’è poco da girare. La Sardegna è qualcosa d’altro. Lo è anche la Corsica? Benone, chi potrebbe negarlo? I Corsi cercheranno di sbrogliare la loro matassa a modo loro (ci stanno provando), ed è giusto così. O vogliamo sostenere che la Corsica sia Francia?

      Quanto alle mie parole sul colonialismo buono o meno buono, mi dispiace che l’ironia (amara, certamente) che vi ho riversato non sia evidente. Non c’è nulla di buono in nessun colonialismo, mai. Possono esserci elementi che, in modo preterintenzionale o addirittura contro gli interessi del dominante, sono di volta in volta tornati utili anche al dominato, laddove il dominato ha saputo fare di necessità virtù. Ma si tratta appunto di una sorta di eterogenesi dei fini.

      Altro discorso ancora è il “what if…?”, il “cosa sarebbe sucesso se…”, che si nasconde in ogni riflessione sul nostro passato. È un gioco, ma non inutile. Serve anzi a ragionare meglio su ciò che è successo, a problematizzarlo, a metterlo in discussione. Ci sono tanti fattori che determinano le vicende umane. Esistono dei rapporti di forza e anche delle linee di faglia, nella storia umana, che producono una probabilità diversa per le varie evenienze possibili. Si tratta dell’esistenza di una necessità storica tutta immanente, non trascedente, che rende più probabili alcuni esiti rispetto ad altri. Ma non esiste un destino scritto. C’è sempre spazio per le scelte umane e per i fattori contingenti. Ragionare sul “cosa sarebbe successo se…” aiuta a comprenderlo meglio ed anche a ragionare sulle possibilità del nostro presente e del nostro futuro, in un’ottica meno deresponsabilizzante.

  3. Non posso che ringraziarti, Omar. Potevo in fondo aspettarmi una risposta del tenore “ma cosa cerchi da un blogger che non fa mistero di occuparsi della (ri)lettura (dei fatti anche prossimi alla luce) della storia della Sardegna?” So bene che lo storico insegna quello che tutti dovremmo imparare a fare, tenere presenti le lezioni del passato per le scelte dell’oggi, come pure alla luce dell’oggi aggiornare insegnamenti già codificati, per cui dargli a credere (allo storico) che si vorrebbe lasciasse perdere il suo lavoro espone appunto al rischio di risposte, diciamo così, risentite. Come hai opportunamente concluso nella tua risposta, tu ti proponi di aiutare ad assumere un’ottica meno deresponsabilizzante; non solo ti credo, non ne dubitavo. Il mio fastidio riguardava il pericolo, potrei sbagliarmi, che aldilà dei tuoi intenti queste letture possano alimentare, al contrario, quella deresponsabilizzazione per cui (da qui la citazione di Serra) le colpe sono sempre degli altri, e dal passato non traiamo la lezione di quelli che sono stati dalla nostra parte (dalla parte in cui ci riconosciamo) gli errori e le mancanze che ci hanno esposti a subire quanto non era nel nostro interesse. Queste lezioni, se intese bene, possono portarci a muoverci meglio nella storia che procede. Se intese male possono, al contrario, arrestarci nella lamentazione di una storia che si dovrebbe riavvolgere per tornare a raddrizzare uno o più torti, lamentazione quindi sterile (se non prova a muovere un passo) o velleitaria (se prova invece a muoverne).
    Per me la storia che procede è ora in seno allo Stato italiano, uno Stato del quale possiamo dirci (dalla Fusione Perfetta) liberi fondatori (più o meno pentiti), che ha significativamente conquistato ed eletto come propria capitale quella città-Stato che ha rappresentato nella storia il potere assolutistico su tutti gli altri territori che sono andati ad annettersela (non escluso il nostro). È certo una prospettiva idealistica, ma a me piace vederla così, sentire, affermare e ribadire anche miei questi diritti di fondazione e questi diritti su una capitale al servizio di tutte le periferie (lasciando da parte la questione tutta sarda e tutta formale della corona portata ai re d’Italia). Che questa capitale adesso sia addirittura Mafia Capitale è appunto il segno di uno Stato che è tutt’ora un processo in (faticoso, speriamo non lineare) divenire e nel quale noi sardi, se vuoi i più diversi tra gli altri (ma in ogni Stato c’è un più diverso, e se si stacca ci sarà ancora un altro più diverso, fino alla divisione dell’atomo), certamente dobbiamo e possiamo far pesare più incisivamente la nostra diversità in tutte le sue declinazioni. Sulla possibilità che questo processo ci porti alla lunga a una situazione simile a quella attuale della Catalogna non mi sbilancio, né mi tiro indietro; solo avanzo che a questo sbocco potranno avvicinare, in modo determinante, le risposte che metterà in campo lo Stato.

    1. Il rischio che evochi esiste. Ma – proprio perché ne sono cosciente – da tempo, o forse da sempre, almeno nella mia attività pubblica, faccio in modo di distinguere impegno intellettuale e militanza politica (quest’ultima ormai conclusa, almeno per il momento). Non solo. Il dovere della verità, della parresia, secondo me deve essere il faro che guida ogni impegno intellettuale che non sia meramente embedded, organico a qualche centro di interessi e/o di potere, strumentale allo status quo e ai suoi rapporti di forza costituiti. In questo senso, confido nella massima evangelica secondo la quale la verità ci rende liberi (o un po’ più liberi), e dunque responsabili di noi stessi.

      Tu ti senti persuaso dalle tesi di Casula sulla presunta maternità sarda dell’attuale stato italiano. Una tesi che conosco molto bene. Io la trovo del tutto scorretta sul piano storico e politico, nonché tragicamente fuorviante, vero fattore di conservazione. Non a caso tanto cara a un personaggio a dir poco equivoco del nostro recente passato quale è stato Francesco Cossiga (di cui F.C. Casula era consigliere e amico).

      Attendere che sia lo Stato italiano a darci le risposte che aspettiamo a me pare pura illusione, per altro con risvolti drammatici. Non è solo un punto di vista e non è di sicuro una visione puramente idealista (anche nel senso proprio, filosofico e politico del termine). Penso che allo stato italiano della Sardegna importi solo in termini meramente strumentali. Ed è giusto così, dato che la storia umana non procede certo secondo canoni etici o addirittura morali, bensì unicamente sul piano della dialettica tra le forze concrete (economiche, sociali, culturali, politiche). La forza che non abbiamo, non può darcela nessun altro. La subalternità che subiamo possiamo sconfiggerla solo da noi, non certo con la collaborazione di chi ci domina. Mi soccorrono in questa prospettiva riflessioni corpose di grandi pensatori moderni e contemporanei e una casistica storica ormai cospicua. Basterebbero del resto gli studi postcoloniali a offririci strumenti interpretativi potenti ed esaustivi, se solo gli studi postcoloniali fossero di casa in Sardegna.

      Sia come sia, di tutto mi si può imputare tranne che di indulgenza verso le nostre debolezze collettive e delle nostre mancanze storiche. Ricostruire onestamente la nostra storia ha senso solo se essa ci consente di collocarci correttamente nel tempo e nello spazio. Dopo di che, il da farsi non lo stabilisce lo storico. Quella è responsabilità di tutti o comunque di tanti. Offrire strumenti di comprensione e socializzarli è un compito che mi sento di prendermi, sperabilmente non da solo. A ognuno la sua parte.

  4. Omar, mi rimetto alla tua misura, a un tuo cenno posso astenermi dal prolungare questo scambio, forse stancante (o stucchevole, o avvilente) per te e quanti leggano, magari però utile a portare sul piano del confronto idee è possibile sbagliate (a tuo giudizio certamente sbagliate) eppure non poco diffuse (diffuse, tra l’altro, tra quanti almeno si appassionano al problema; sto pensando ai confronti tra atei e credenti, in cui sempre si sottolinea quantomeno il comune interesse alla tematica, interesse che per sé stesso li accomuna, atei e credenti, rispetto alla massa degli indifferenti).
    Intanto apprezzo l’esempio che è appena emerso: Omar giudica con franchezza le mie idee, mostrando tutta la sua contrarietà, senza sfiorare il piano personale. Può dirmi che sono scorrette, addirittura tragicamente fuorvianti e fattori di conservazione, ma se abbiamo argomenti da portare possiamo ancora parlarne. Certo, non prenderla sul piano personale è più facile per me di quanto lo sarebbe, posso sospettare, per Francesco Cesare Casula. Io non sono uno storico (Totò direbbe che non sono Pasquale), quindi che Omar assimili le mie idee sulla materia a quelle di uno storico potrebbe lusingarmi, nonostante i giudizi connessi. Non ho, insomma, motivi per prendere le distanze da Casula, delle cui tesi ho letto perlomeno in modo parziale e disorganico (mea culpa; non lo dico, cioè, per svalutarlo, ho letto certamente più lui che altri, e per esempio leggo da Omar per primo degli studi postcoloniali). È pur vero che anche per interposta persona l’accostamento a Cossiga, a pelle, non mi fa felice. Come è vero che la tesi della continuità tra corona sarda e corona italiana (senza nemmeno azzeramento della numerazione dei sovrani, questa l’avevo trattenuta) l’ho citata in parentesi ammettendola questione tutta formale e tutta sarda, ossia una sorta di nostro intimo vanto (almeno potenziale, per chi riesca ad avvertirlo), appena qualcosa di più che aver portato al campo il proprio pallone per la finale che si è giocata e vinta (ci sta che poi il pallone lo conservi, anche se in finale non avevi segnato tu il gol della vittoria). Se poi anche Casula legge la Perfetta Fusione (con tutti i suoi limiti quanto alla rappresentatività di chi la chiese, quindi alla forma con cui la si chiese e all’adeguata maturazione, a monte, del disegno politico teoricamente sottostante) come il prodromo in qualche modo dei futuri plebisciti di annessione all’Italia (cosa che non credevo di avere letto) , allora può farmi piacere scoprire di avere percorso gli stessi passi di uno storico (magari letto e finito senza etichetta nel magazzino della memoria).
    Ti ringrazio, dicevo, per averci sottoposto gli studi post-coloniali. Quel che ho potuto leggerne a ora con una veloce ricerca in rete è ovviamente a malapena un profilo generalissimo, dal quale emerge però questo rilievo: una delle caratteristiche qualificanti per soddisfare la definizione di “colonia” è essere un territorio amministrato da uno Stato straniero con un ordinamento giuridico particolare in base al quale i diritti delle popolazioni autoctone non sono equiparati a quelli dei cittadini dello Stato occupante. Ecco, non mi sbilancio a giudicare riguardo al periodo sotto i Savoia prima della Perfetta Fusione (con gli Stamenti, la Reale Udienza e quanto ancora restava delle istituzioni spagnole), ma appunto la Perfetta Fusione voleva proprio equiparare a tutti gli effetti i diritti dei sardi, sudditi d’oltremare, con i diritti dei sudditi della terraferma. E da lì in avanti, soprattutto, non vedo come si possa sostenere che questa condizione per dirsi colonia sia ammissibile. O vogliamo addossare ai piemontesi e quindi, transitivamente, agli italiani tutti il peso del nostro travaglio comunque postcoloniale, quando questa identità coloniale è stata largamente forgiata dagli iberici (e solo ereditata dai rampanti principi di Piemonte, subito reali ma anche alle prese con problemi più grandi di loro)? Non è stata una carta emancipativa, allora, entrare (o almeno scegliere di lasciarsi trasportare) a pieno titolo tra gli altri nel nuovo Stato italiano, che aveva (ripeto, idealisticamente, nelle migliori intenzioni) il vasto programma di riscattare tanti popoli a lungo soggiogati? Aggiungerei che, nel solco di quanto detto nei commenti precedenti (il passato che può essere usato per scaricare responsabilità, trovare altri colpevoli, in modo colpevolmente sterile), il profilo di una identità postcoloniale mi sembra anch’esso estensibile a permettere, più o meno stiracchiato, il riconoscervisi di molte minoranze periferiche dagli inevitabili trascorsi storici di sottomissione, non per forza oltre-marine (come siamo tutti i meridionali di qualcuno, almeno molti sono stati anche colonia di qualcun altro).
    Mi fai sostenere, infine, che noi sardi si debba attendere le risposte giuste (per noi) dallo Stato (italiano); lasciami dire che io non volevo metterla così: quando scrivo che a uno sbocco analogo alla Catalogna 2015 potranno avvicinare, in modo determinante, le risposte che metterà in campo lo Stato (rispetto, avevo appena detto, al nostro far pesare incisivamente la nostra diversità in tutte le sue declinazioni), mi riferisco a risposte cui lo Stato dovrebbe venire costretto per l’incisiva rappresentazione dei nostri bisogni. Se manca questa rappresentazione incisiva (e il disegno che la guidi) è ovvio che le risposte non arriveranno. Per avere le risposte (che muovano qualcosa, positive o negative che siano) occorrono domande ben poste e ben sostenute, e già questo sarebbe il traguardo di un processo (un processo che rende quella frase, conquistarci una soggettività politica collettiva in quanto sardi, più concreta per chi l’avesse considerata solo ariosa). Se vogliamo misurarci con le risposte, occorre saper porre le questioni. Al devoto che lo invocava perché gli facesse vincere una lotteria San Gennaro finì per replicare: però tu accattatelo stu biglietto.
    Nella nostra discussione mi sembra aleggiare lo spirito di minoranza, quello che non riuscendo a determinare maggioranze, a muoversi politicamente per avvicinare quelle che gli sarebbero più utili, vedendosi sempre minoranza è tentato di dire (e prima o poi dice) “vaffanculo alla maggioranza”, per mettersi in proprio (o provare ad agire come se lo fosse). Più che una parolaccia è una citazione da “Il mostro” di Benigni (scena della riunione di condominio). In fondo, osando anche questa (e)semplificazione, in seno all’Italia stiamo come in un condominio: gli altri nei loro appartamenti in un palazzo allungato, irregolare, un po’ così, confinante a un estremo con complessi edilizi di riguardo; noi in un appartamento entro il giardino condominiale, una pertinenza del condominio; giocoforza nelle riunioni di condominio ci tocca sentire cose che ci riguardano poco e, d’altronde, faticare ad attirare l’attenzione sui nostri bisogni; occorre appunto pervenire a rappresentarli incisivamente, a domande ben poste e ben sostenute, a fare politica quando serve secondo i nostri interessi; solo così avremo le carte in regola per poter dire, eventualmente, tra noi solidali (perché a nulla ancora varrebbe che lo gridassero in pochi), quel “vaffanculo alla maggioranza” che, se non è solo uno sfogo, è giusto l’inizio di un altro processo.

    1. È un po’ faticoso, Francesco, ma ti seguo.

      Dunque, da dove riprendere? Direi da qui: che siamo una minoranza e che con questa condizione dobbiamo fare i conti, secondo me non ci piove. Lo siamo e non solo per debolezze nostre, ma per ragioni oggettive (dimensioni e distanze geografiche, demografia, peculiarità socio-culturali). Bisogna farci i conti, però hai perfettamente ragione quando sostieni che intanto dovremmo essere noi a formulare le domande giuste e anche nei modi più efficaci. Lo sostengo da tempo io stesso (non da solo, per fortuna): bisogna agire dentro le condizioni date e tirarne fuori tutto il possibile, secondo appunto le condizioni date. Senza fermarsi lì, però, e con una prospettiva ben concepita in mente. Questo però non lo si può chiedere ai partiti italiani in Sardegna e a chi si riconosca negli assetti di potere vigenti, che assumono come condizione decisiva la subalternità e la debolezza economica e sociale dell’isola. Tanto meno lo si può chiedere allo Stato italiano, che ha i suoi interessi generali )e spesso particolari) da difendere, le su relazioni strategiche, la sua classe dominante a cui rispondere (di cui quella sarda è cliente, o al più rappresentante proconsoolare in loco).

      Sugli studi postcoloniali temo ci sia un equivoco. L’applicazione degli studi postcoloniali è piuttosto ampia. Ti stupirà forse il fatto che uno dei loro fondamenti teorici più robusti e proficui, da quarant’anni in qua, si possa rinvenire nell’opera di Antonio Gramsci. La loro pertinenza col caso sardo esula dall’ammettere per la Sardegna una condizione propriamente coloniale. Se stiamo alle definizioni scolastiche, si potrebbe sostenere che la Sardegna non sia una colonia dell’Italia. E va bene, in effetti tecnicamente non lo è. Ma questo vale solo se si resta a un livello molto semplicistico e letterale delle definizioni. In realtà, storicamente, la condizione della Sardegna è del tutto assimilabile a quella di una colonia oltremarina (pensiamo all’Algeria francese). Se non in tutto e per tutto, quanto meno in molti elementi decisivi. Era già così per i Piemontesi. Con la Perfetta Fusione una parte della classe dominante sarda intendeva ovviare alla oggettiva disparità tra isola e stati della terraferma. E mal gliene incolse, dato che la Fusione comportò – paradossalmente? – un’ulteriore accentuazione delle disparità e della subalternità sarda. Che poi fu confermata e certificata con l’avvenuta unificazione italiana. Che di suo non fu affatto un processo di liberazione, specie per il Mezzogiorno (liberazione da chi? da cosa?), ma una brutale (e illegale) annessione, seguita da dieci anni di guerra (di stragi, di saccheggi, di campi di concentramento, ecc.).

      Viceversa, non si può affatto considerare la Sardegna spagnola come un esempio di colonizzazione. Tutt’altro. Questa è la vulgata che si estrae da decenni di storiografia embedded, di ideologia sciovinista, centralista e patriottarda italiana (applicata alla Sardegna), non nata né morta col fascismo. La Sardegna spagnola era un regno della corona aragonese e poi di Spagna, con problemi suoi propri connessi ai problemi peculiari di quell’immenso impero. Mutatis mutandis e fatte tutte le proporzioni del caso, la decadenza, i problemi e la sottomissione saranno conosciute dai Sardi molto più a partire dal passaggio della corona ai Savoia che nell’epoca precedente.

      A parte questa obiezione, ce n’è un’altra: il colonialismo a cui si fa riferimento negli studi postcoloniali è soprattutto quello contemporaneo, tra Otto e Novecento. Perché ha dei tratti specifici. Ed è quello che più ci chiama in causa. Non solo e non tato sul piano formale, quanto sicuramente sul piano sostanziale, degli effetti, dei rapporti di forza, degli esiti economici, culturali e politici. Posso solo invitarti ad approfondire la conoscenza di quest’ambito di studi.

      Ultima cosa. Non devi stupirti se ti rispondo senza insulti o delegittimazioni personali. Bisognerebbe stupirsi del contrario. So che non funziona sempre così, ma qui – come spiegato anche nella netiquette del blog – questa è la regola.

  5. Vedrò (di fare in modo) che questa sia per te l’ultima fatica, almeno per un po’ ;-).
    Già non scriverei oltre, se non fosse per una cosa; ma già che questa cosa c’è mi allargo a scrivere, in tutto, di una cosa e tre quarti.
    Il primo quarto: ovviamente non ero stupito della civiltà del confronto, solo sottolineavo la piacevole dimostrazione nei fatti di quanto tutti sono capaci di scrivere, in linea di principio, a proposito di netiquette. All’insegna della raccomandazione: quando siete felici, fateci caso.
    I secondi due quarti: credevo stessimo procedendo vicini, convenivamo che è un processo (se vogliamo avviato da 150 anni, spesso sacrificato ad altro, con passi talora avanti e talaltra indietro) quello di arrivare a porre, tramite un’azione politica incisiva (anche in quanto largamente rappresentativa), le questioni salienti dei nostri particolari bisogni, porle a uno Stato centrale che allora con le sue risposte starebbe scegliendo per la propria parte quale corso successivo favorire (migliore integrazione nella diversità o azioni centrifughe insieme determinate e democratiche, alla Catalogna 2015); ma a un certo punto avverto che così vicini forse non siamo, perché cos’è che dici non potremmo chiedere allo Stato italiano? Non stiamo parlando di arrivare a (im)porre le nostre questioni? E se non vanno poste allo Stato italiano, con chi, allora, staremmo rapportandoci, nella realtà?
    La cosa intera, quella che meglio giustifica quest’ultima tua fatica, è infine questa: quanto è convenuto, tra gli storici, oggi, quel che hai riassunto sulla Sardegna (relativamente) felice sotto la Spagna e poi la Sardegna stuprata (abbastanza, sostieni) dai Savoia in avanti? Ho letto il tuo ultimo libro, direi che, sì, avevo colto una rivalutazione del periodo spagnolo, ma così fortemente certo non mi aveva colpito (dovrò riguardarlo). Quindi quello che si può leggere per esempio qui (http://www.araldicasardegna.org/genealogie/feudi/feudalismo_in_sardegna.htm) dalla buonanima del Prof. Alberto Boscolo (in un saggio del 1967: vetusto?) sulla persistenza del feudalesimo in Sardegna fino a tutto il dominio spagnolo (o non dovremmo nemmeno chiamarlo dominio?) e sui problemi che queste resistenti incrostazioni nelle istituzioni sociali ed economiche in Sardegna hanno creato ai neopromossi regnanti piemontesi, questa storiografia che ancora ingannerebbe le menti di quanti genuinamente interessati vi si imbattano ignari delle sue distorsioni, sei convinto sia da bollare come depistante e (consapevole o meno che fosse) di regime (postcoloniale)? Quanto è convenuto, ripeto, oggi, questo sguardo? Quali forze accademico-politiche sono schierate su questo fronte, in Sardegna e in Italia? E quanto è forte (e quanto è trasparente) un fronte opposto?
    Grazie per il tempo e la pazienza, penso alla fine investiti a segnare il tuo stesso solco.

    1. Sul primo punto, ribadisco ciò che penso da molto tempo. Il dovere di porre le questioni allo Stato centrale c’è, per un fatto pragmatico ed anche simbolico. È vero, oggi come oggi il nostro primo interlocutore (ma non l’unico) è l’Italia. Solo che, da quella parte, non arriveranno mai le risposte che ci servono. In fondo è questa una delle più solide argomentazioni a favore di un percorso di indipendenza. La Sardegna, per ragioni oggettive di tipo strutturale (geografico, demografico, economico, culturale, storico) è destinata ad essere sempre e comunque una porzione marginale, periferica e lontana di uno stato più grande, altro da sé. E, per come vanno le cose del mondo in questa epoca, tale condizione coincide necessariamente con la nostra sacrificabilità davanti a interessi (altrui) più corposi. Non è un fatto da inquadrare secondo categorie morali o etiche. Semplicemente, nelle vicende umane contano i grandi numeri, i rapporti di forza, le relazioni concrete che legano fattori fisici e storici. In questo quadro, o la Sardegna è un soggetto a sé (cosa da costruire e da rendere veicolo di emancipazione collettiva, per come la vedo io), oppure la nostra sorte è questa e non ci sarà alcun santo o alcuna divinità ancestrale, nemmeno il Sardus Pater, in grado di mutarla. E tra pochi decenni saremo molti di meno, più vecchi, più malati e più poveri. Senza voce né dignità.

      Circa la rivalutazione del periodo spagnolo, ti consiglierei di attingere a qualche testo decisamente meno datato del Boscolo. Di acqua sotto i ponti per fortuna ne è passata molta, persino sotto i ponti malfermi della storiografia sarda. Basta che tu legga qualcosa di Francesco Manconi e avrai un quadro della Sardegna “spagnola” decisamente più articolato e puntuale. L’inquadratura di quel periodo come un’epoca di oscura decadenza discende esclusivamente da ragioni ideologiche. Andava fondata una visione in cui la Sardegna, prima ancorata ai destini italiani tramite Pisa e Genova, dopo la parentesi buia del “dominio” spagnolo veniva riscattata e riportata alla luce della civiltà italiana grazie ai Savoia e poi grazie all’unificazione italiana. Una narrazione totalmente orientata, tendenziosa e scorretta da molti punti di vista, ma che ha imperato per decenni e ancora oggi ha un suo peso nell’immaginario – così debilitato e privo di risorse – di tanti sardi, specie se acculturati. Che l’epoca più buia per la Sardegna, mutatis mutandis, sia quella che inizia con i Savoia e che prosegue ancora oggi, temo non ci siano dubbi. Ce ne sarebbero anche di meno, se la nostra storiografia facesse il suo mestiere fino in fondo e ci restituisse una narrazione delle nostre vicende meno pavida, meno conformista, meno italocentrica. Forse qualcosa in tal senso si muove. Non so. Magari è solo un auspicio. Io provo a fare la mia parte, per quel poco che posso.

  6. Anche oggi accompagno il tuo caffè, Omar, solo per dirti che ho apprezzato questa discussione fino ad essere, in aggiunta, molto toccato dalla tua chiusura: “una narrazione della nostra storia totalmente orientata, tendenziosa e scorretta da molti punti di vista, ha imperato per decenni e ancora oggi ha un suo peso nell’immaginario – così debilitato e privo di risorse – di tanti sardi, specie se acculturati”. Riconoscermi, quindi, un sardo (relativamente) acculturato mi induce a mettermi in discussione: sarei il frutto di una campagna di indottrinamento (dispiegata da ben prima della mia nascita) per cui ora sono un non Sardo-parlante infarcito di cultura e costumi italiani (già pronto, addirittura, a cantare con Gaber “io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo … per fortuna lo sono”), ignorante della cultura e dei costumi sardi (se non per quel poco passatomi comunque dalla mia famiglia e per quel tanto che mi impegno a rimettere insieme da solo) e perfettamente funzionale, nel mio piccolo, a mantenere lo status quo, magari finendo a mia volta per imporre il modello cui aderisco ad altri sardi (relativamente) meno acculturati.
    Aderisco allora senz’altro al tuo auspicio conclusivo, che (oltre a quello che tu cerchi di fare in prima persona) qualcos’altro si stia muovendo nella nostra storiografia. Certo, se ancora non c’è, ci vorrebbe un’opera che racconti la storia di questa storiografia piemontese e italiana, che spieghi bene come si sia potuto cominciare a cogliere, interpretare e tramandare amplificato solo il buono ascrivibile allo Stato sardo-piemontese e poi italiano, facendo allo stesso tempo tutto il contrario con il precedente regno di Sardegna targato Spagna; un’opera che racconti come questo gioco abbia potuto compiersi sulle memorie dei vivi, distratti, e nell’indifferenza della storiografia anzitutto spagnola, evidentemente subito distaccata dai destini di un territorio uscito dalla sua sfera di influenza; un’opera, infine, che spieghi quanto gli storici dai tempi della Sardegna Piemontese all’oggi siano stati o meno consapevoli della mistificazione che dici, nonché quanto si vada estendendo una nuova e più autentica storiografia in questi anni. Una medicina anzitutto per tutti gli (pseudo) acculturati sardi, che agisca in primis (nella coscienza di ciascuno) sul loro ruolo di stabilizzatori dell’esistente.
    C’è già un saggio così? E tu cercavi consigli per il tuo prossimo libro?

    1. Non avertene a male, Francesco, ma quella che – un po’ ironicamente – descrivi in termini soggettivi è davvero la condizione diffusa di molti sardi “acculturati”. E non è una mia pura illazione. Si tratta di fenomeni piuttosto comuni. Non siamo affatto diversi e tanto meno speciali come ci piace dipingerci.
      Di un libro o più d’uno su questi temi c’è senz’altro bisogno. Ma io tutto sommato penso di aver già dato. Alcune risposte ai dubbi che esprimi (o forse, più che risposte, alcune domande) le ho condensate nel mio libro Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso. Provocatorio nel titolo e forse anche in parte nei contenuti, ma dove propongo in sintesi una spiegazione del processo di acculturazione e di mitopoiesi che hanno costruito nei decenni l’immaginario e la stessa identità sarda. A quello rimando.
      Grazie per la discussione.

  7. Non posso avermene a male, Omar, semplicemente perché non volevo essere ironico.
    Potrei di nuovo sembrarti ironico, ma un’altra volta non lo sono, quando dico che ora vivo peggio con la consapevolezza che gli studenti e gli insegnanti (temo la stragran parte) che vedo convergere a scuola e sciamarne (abito vicino al Liceo Azuni, che non penso faccia eccezione) vanno in buona fede, come già noi, a perpetuare questo modellamento fondato su testi non semplicemente di parte, ma (dandoti credito) mistificatori della realtà (modellamento inoltre fondato, questo nessuno ce lo nasconde, su programmi nei quali la Sardegna non compare e il Sardo tanto meno). Ho visto su Facebook il tuo attivismo a sostenere programmi che introducono nella scuola, negli spazi concessi dall’autonomia scolastica, elementi di storia e lingua sarda: speriamo sia il sorgere di un’onda destinata a ingrossarsi.
    Quindi non so se esserti grato, da italiano con meno dubbi ontologici stavo più tranquillo. Questo aspetto mi fa pensare a Freud (il paragone è impegnativo) che atteso negli Stati Uniti d’America, dove sapeva erano entusiasti di accogliere la psicanalisi, commentava che ancora erano ignari di ricevere una peste. Penso anche agli indiani d’America e agli afroamericani, che sanno dei crimini perpetrati contro la loro gente e però ormai non possono che integrarsi, pur facendo memoria di quello che è stato; non voglio dire che la nostra storia somigli alla loro, ma la differenza che mi sembra interessante nel nostro discorso è che loro non possono pensare di tornare indipendenti nella loro terra, noi sardi invece sì, siamo ancora larghissimamente noi a popolare la Sardegna, la storia continua quindi a offrirci questa possibilità, a chiamarci (in fondo) a questa responsabilità, a non stare perciò tranquilli se stiamo a leggerla come (dandoti credito) dovrebbe essere scritta e interpretata.
    Quindi sì, ci sono da scrivere libri e, per chi raccolga la sfida, c’è soprattutto da vincere il desiderio dei più di stare in pace, in pace soprattutto con la propria cultura e appartenenza, comunque originatesi, senza costose rivoluzioni personali (in fondo tutti i credenti sanno che il Vangelo dice “prendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, lascia la tua famiglia, la tua casa e i tuoi campi e seguimi”; continuano a dirsi credenti e si accontentano di esserlo tra tanti limiti). In questo scambio di commenti so di aver citato tutto un retroterra italiano (molto pop), da San Gennaro a Gaber, da Totò a Benigni, da Alberto Sordi a Michele Serra; non è stata una scelta provocatoria e mi spiace non avere neanche per questo epilogo un riferimento isolano, perché ancora mi sovviene Serra (per chi ve lo riconoscerà): il problema non è l’italiano in sé, ma l’italiano in me (specie, aggiungerei, se finisco per trovarlo, rispetto alla media e nella sua salsa sarda, un italiano tra i migliori).
    Il tuo primo libro l’ho letto e ho cercato di diffonderlo … devo anzi ricordarmi a chi l’ho prestato.

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