Prendersela con chi (a proposito di questione linguistica sarda)

Un articolo relativo alla Sardegna, comparso qualche settimana fa sulle pagine culturali del Corriere della Sera, torna d’attualità adesso, in prossimità della riapertura della scuole. Il tema è quello linguistico, vexata quaestio quant’altre mai.

Nel pezzo si fa cenno della ratifica da parte dell’Italia della Carta europea sulle minoranze linguistiche, un vecchio provvedimento adottato nell’intero continente che l’Italia – per ragioni non troppo misteriose – ha faticato a fare proprio. L’Italia si è costruita sulla negazione delle diversità al proprio interno, ossessivamente abbarbicata al mito tecnicizzato della nazione italiana, una d’arme, di lingua e di cuor e via dicendo. Niente di strano che la classe dominante italica abbia sempre guardato con sospetto alle pretese dei gruppi alloglotti finiti per avventura dentro i confini dello stato unitario.

Eppure qualche passo avanti era stato fatto, anche se con fatica e reticenze: nel 1999 era stata approvata la legge 482, dedicata proprio al riconoscimento delle minoranze linguistiche nel territorio italiano. Tra queste, inevitabilmente e un po’ obtorto collo, anche il sardo. I sardi, in base alla L. 482/99, risultano dunque la più numerosa minoranza linguistica entro i confini italiani. Un riconoscimento assai pericoloso, per una popolazione che non è stanziata sul territorio italiano propriamente detto, ma in un’isola lontana. Il contrappeso politico di questa concessione fu il disconoscimento del sistema linguistico sassarese-castellanese-gallurese e della parlata ligure di Carloforte e Calasetta come minoranze linguistiche. Doppiamente minoranze (in Italia e in Sardegna) e quindi doppiamente beffate. Sul catalano di Alghero non c’erano trucchi possibili, dunque la parlata algherese rientra nella previsione della L.482, ma del resto stiamo parlando di circa 20000 persone, quantità che esclude una potenziale minaccia politica.

Il nocciolo della faccenda infatti è che con la 482 si è dato il primo riconoscimento formale a livello giuridico all’esistenza della lingua sarda (dopo un secolo dal riconoscimento scientifico, anche in Italia), ma si è anche istituita una suddivisione artificiosa e di natura esclusivamente politica tra le lingue sarde. Il paradigma del divide et impera qui è stato applicato da manuale. Rendere giuridicamente rilevante la diversità tra abitanti della Sardegna in relazione alla loro lingua ancestrale è un espediente efficace per debilitare la consapevolezza dei sardi, di tutti i sardi, di condividere una storia e un destino.

A distanza di qualche anno, dato che comunque la politica sarda non è stata in grado di trasformare il riconoscimento ottenuto in qualcosa di pragmaticamente utile, lo stato centrale si è in qualche modo rimangiato quella concessione. Con la sempre pronta complicità dei parlamentari eletti in Sardegna (evidentemente non per fare gli interessi o curare i diritti dei sardi). Al momento della ratifica della Carta europea sulle minoranze linguistiche, dunque, nessun parlamentare eletto in Sardegna ha chiesto che tra le minoranze linguistiche italiane da tutelare e promuovere fosse ricompreso il sardo. E nemmeno alcun’altra lingua di Sardegna. Del che qualcuno si è approfittato immediatamente. Una sentenza della Corte di Cassazione dell’estate scorsa declassava il sardo a “dialetto” (come se poi un dialetto non fosse una lingua, ma lasciamo state questo profilo della questione). Allo stesso modo, in questi giorni, il Ministero dell’Istruzione ha escluso il sardo dai finanziamenti dedicati all’insegnamento delle lingue minoritarie nelle scuole pubbliche, in quanto appunto non rientrante tra le lingue protette dalla Carta europea (e anche in questo caso declassato a dialetto).

L’articolo del Corriere sottolinea con stupore proprio l’improntitudine dei parlamentari eletti in Sardegna a proposito della ratifica della Carta europea sulla minoranze linguistiche. Se si fosse limitato a questo, poco da dire. Invece – come capita spesso agli osservatori italiani a proposito di cose sarde – il cronista Franco Brevini si lascia andare a una divagazione di tipo storico-linguistico sulla Sardegna, inanellando una sequela di sciocchezze che vanno ad arricchire il già ampio panorama di fole (come le chiamava Sergio Atzeni, cun sas animas chi siat) che sul nostro conto hanno propalato negli ultimi duecento anni osservatori stranieri a caccia di esotico o sardi desiderosi di accreditarsi fuori dall’isola.

Ad esempio questo passaggio:

Per fortuna si vanno superando i conflitti legati alla cosiddetta «limba comuna», promossa qualche anno fa da un provvedimento della Regione. L’idea era di creare una sorta di lingua mediana, una koinè, che mettesse d’accordo le diverse varietà sarde, idea artificiosa respinta ultimamente anche dalla commissione di esperti costituita dall’ Università di Sassari. Se Manzoni non è riuscito a far parlare fiorentino agli italiani, come poteva riuscire Cagliari a convertire alla nuova limba i sardi? I quali di lingue ne hanno almeno tre: il sardo-corso al Nord, il nobile logudorese al Centro e il campidanese al Sud.

Intanto prendere per buono il parere dell’Università di Sassari su qualsiasi aspetto della questione linguistica sarda è come attribuire credibilità scientifica al parere del misogino sulla rispettabilità delle donne. La disinformazione su cosa fosse e sia la LSC è poi l’aspetto meno rimarchevole. Significativo invece che Brevini stabilisca assertivamente che in Sardegna ci sono tre sistemi linguistici distinti: sardo-corso, logudorese e campidanese. Immagino voglia dire che queste sono tre lingue propriamente sarde (mentre algherese e tabarchino non lo sarebbero). Ma anche così tale affermazione è una panzana irricevibile, che denuncia o la mala fede o il pressapochismo di chi se ne rende autore. Se poi il logudorese è “nobile” viene da pensare che il campidanese non lo sia. E qui mi sento di solidarizzare con chiunque si consideri campidanese-parlante e si senta offeso.

Le magagne non finiscono qui, comunque. Sostenere che nel 1720, con l’arrivo dei Savoia, il “toscano” scalza il castigliano dalla Sardegna è come minimo semplicistico. Lasciamo stare che per il 1720 si dovrebbe parlare semplicemente di lingua italiana, non già di “toscano”, dato che così era ormai riconosciuta e definita – sia pure come lingua scritta, letteraria o amministrativa – almeno dal 1525 (Pietro Bembo, Prose della volgar lingua), o dal 1612 ad essere di manica larga (prima edizione del Vocabolario dell’Accademia della Crusca). A parte questo aspetto, qui marginale, il dato storico da sottolineare è che l’italiano non scalzò un bel nulla per un pezzo, in Sardegna. Solo nel 1760, sotto il ministero del Bogino, si ufficializzò l’uso legale dell’italiano sull’Isola, ma per diventare a tutti gli effetti una lingua dei sardi la lingua della Crusca ci avrebbe messo un altro paio di secoli, come sappiamo. Facilonerie giornalistiche, si dirà.

Magari è così. Il guaio è che non finiscono lì. Tutto l’articolo è ricolmo di tali errori o approssimazioni. La pretesa per esempio che il “logudorese” sia il sardo illustre e che “[…] quasi tutti nell’isola riconoscono che la «lingua nazionale sarda» è il logudorese” è una banale falsità. Immediatamente dopo, inoltre, si può leggere un prezioso consiglio pratico e metodologico a cui nessuno tra noi poveri “italiani speciali” aveva mai pensato: “l’invito all’unità può essere raccolto scrivendo tutte le varietà locali secondo una comune norma ortografica”. Geniale! È proprio vero quel che diceva Camillo Bellieni: senza la luce della civiltà che ci arriva dall’Italia noi sardi siamo destinati a non uscire mai dalle tenebre cui ci condanna la nostra storia barbarica.

Al di là delle stupidaggini o delle approssimazioni imbarazzanti di cui è cosparso l’articolo, quel che però mi preme sottolineare ancora una volta è come sia facile per chiunque scrivere cose del genere sul nostro conto. Ma l’aspetto più inquietante è il ragionevole sospetto che dietro tali enormità si celi alla fin fine il suggerimento di un sardo.

I primi a concepire i nostri elementi identificativi come cliché folkloristici siamo noi. I primi propalatori del nostro mito identitario fasullo siamo noi. I più grandi spacciatori di immani catzate sul nostro stesso conto siamo noi stessi sardi.

Prendersela col Ministero dell’Istruzione perché taglia i fondi per l’insegnamento del sardo è un esercizio rivendicativo sterile e fuorviante. Ricercare la tutela dell’Italia sul patrimonio linguistico sardo è del tutto insensato. Lagnarsi perché tale tutela non si manifesta è stupido. A chi deve interessare la nostra questione linguistica se non a noi? E dove si deve cominciare a farla valere e a risolverla se non in Sardegna, tra i sardi? Siamo così sicuri che l’agonia delle nostre lingue minorizzate sia tutta da attribuire alla perfidia di un potere esterno, ossessionato dalla nostra diversità? Non lo siamo prima di tutto noi stessi?

Perché di ossessione si tratta. Non avere ancora metabolizzato compiutamente la nostra estraneità all’Italia e il nostro essere altro causa costantemente dei disturbi della personalità, dei diffusi sintomi di patologie psichiche. Anche l’incapacità di accettare il fatto che l’italiano sia ormai una lingua dei sardi, negando valore così a una ulteriore risorsa culturale a nostra disposizione, è un sintomo di questa debilitazione psichica e culturale.

L’unica risposta seria al MIUR, al parlamento italiano e alle nostre paure è nello specifico appropriarci compiutamente e definitivamente dell’intera questione linguistica, dotandoci degli strumenti culturali e legislativi necessari a risolverla, e più in generale prenderci in carico tutto l’ambito dell’istruzione e dell’università. Non ci sono le risorse? Balle. Cominciassimo a pretendere dall’Italia i 10 miliardi della vertenza entrate e approvassimo immediatamente l’istituzione di una agenzia sarda delle entrate qualcosa a disposizione ci sarebbe, eccome. Ma si tratta fondamentalmente di assumere l’intera questione come una priorità politica e investirci tempo, risorse e competenze.

Quando le lingue sarde saranno morte e ci troveremo – forse unici al mondo –  a parlare quel che resta dell’italiano, se proprio avremo voglia di piangere sul latte versato, dovremo ricordarci che il latte l’abbiamo versato noi.