Lettera aperta al presidente italiano

Egregio presidente Napolitano,

Lei si appresta a visitare la Sardegna con tutti i crismi dell’ufficialità, come rappresentante dell’Italia unita. Quell’Italia cui la Sardegna appartiene formalmente. Saprà sicuramente che questo non è un bel momento per noi sardi.

Oddio, negli ultimi duecento anni è difficile trovare dei momenti veramente belli, per noi. Ma diciamo che in questa fase storica la Sardegna avverte in modo particolarmente stringente le conseguenze materiali della sua condizione subalterna e marginale.

Non so se Lei sia informato compiutamente di quanto succede dalle nostre parti, né se si sia fatto un’idea di quali siano le cause storiche di tanto disagio.

Temo che ai suoi occhi, come agli occhi di tutta la politica italiana, dei mass media e dei vari centri di potere e interesse che hanno in Italia la loro sede, la Sardegna sia una sorta di appendice oltremarina sì pittoreesca ed esotica, ma in definitiva del tutto insignificante, se non fosse per gli indubbi vantaggi che può offrire come terra di esperimenti (militari, sociali, politici), di speculazioni, di fornitura di soldati e al limite di vacanze.

Immagino che nei suoi discorsi si servirà di tutti gli accorgimenti retorici e di tutti gli argomenti che da 150 anni codificano i rapporti tra Sardegna e stato italiano.

Si soffermerà a enumerare i grandi nomi di sardi che hanno onorato l’Italia, esalterà l’apporto di lavoro, sacrificio e creatività offerto dalla Sardegna allo stato italiano, all’economia italiana, alla cultura italiana.

Evocherà l’antichità del legame storico tra la nostra terra e la penisola italica, rispolvererà forse le comuni radici latine, o il dominio pisano e genovese, indulgerà magari nella teoria che vuole la Sardegna come il primo nucleo politico dell’attuale stato italiano, avallando così l’immagine dei sardi come italiani speciali.

Sappia che molti sardi di questo le saranno grati. Specialmente quelli che occupano posizioni di privilegio e di potere e dal rapporto di dipendenza e subordinazione con l’Italia traggono vantaggi per sé e per i propri clan.

Sorvolo volentieri sul facile accostamento tra la Sua augusta persona e colui che prima di Lei doveva essere analogamente insignito di una laurea honoris causa dall’ateneo turritano, senza scadere nell’umorismo facilone che la vedrebbe tra i mandanti della eliminazione fisica del personaggio in questione allo scopo di non essere preceduto da lui in questo prestigioso riconoscimento.

La Sua generosa scelta di degnarci della Sua presenza merita ben altra considerazione e sarà sicuramente ripagata dalle attenzioni, dalla cura e dalla giusta dose di servilismo, che le nostre classi dirigenti sanno esprimere con la massima disinvoltura in situazioni come questa. Ogni cosa sarà predisposta per accoglierla convenientemente e per incoraggiarla a sciorinare tutto l’apparato narrativo che ci si attende da Lei. E certamente Lei saprà essere all’altezza delle aspettative.

Del resto Lei è una persona di grande esperienza. Ha vissuto in tempi interessanti, ha attraversato diverse epoche, ha mutato posizioni e visione delle cose.

Da quando difendeva il diritto dei sovietici a invadere l’Ungheria, nel 1956; a quando, sempre dentro il PCI (fondato dal nostro Antonio Gramsci, come certamente ricorderà e vorrà ricordare anche a noi), propugnava l’avvicinamento al PSI di Bettino Craxi, ai suoi occhi un grande e lungimirante innovatore della politica italiana; a quando – solo qualche mese fa – decideva di forzare (violare sarebbe troppo, no?) la costituzione italiana, che pure Lei dovrebbe incarnare, promuovendo la guerra di aggressione a uno stato sovrano (la Libia, quella del personaggio cui accennavo prima, ma lasciamo stare).

Non è la conoscenza delle cose del mondo che le manca, dunque, né la capacità di adeguare le Sue posizioni al mutare della situazione.

Per questo mi sento di chiederLe, senza la pretesa di rappresentare alcuno o alcunché, di provare a uscire dagli schemi imposti e, magari, deludere un po’ quei sardi che dal suo arrivo si attendono una legittimazione della propria condizione privilegiata e delle loro rendite di posizione. Sia meno indulgente verso di noi di quanto siamo noi stessi di solito. Ci dica chiaramente le cose come stanno. In fondo può permetterselo.

Ci spieghi come e perché all’Italia della Sardegna non importa nulla. Renda chiaro, con la padronanza lessicale che le è propria, quale sia il grado di incompatibilità tra gli interessi italiani e quelli della Sardegna. Descriva senza edulcorazioni la posizione totalmente strumentale che ha la Sardegna nel contesto statuale italiano e – tramite esso – nel contesto internazionale.

Ci dica chiaro e tondo che noi siamo italiani solo nella misura in cui serviamo all’Italia e non un atomo di più. Faccia presente in termini definitivi che la richiesta di tutela e sostegno e il servilismo non ci porteranno nulla di buono oggi come non ce l’hanno mai portato in passato.

Sia onestamente severo e ci richiami alla nostra responsabilità storica. Mortifichi le nostre pulsioni autoconsolatorie e autocastranti. Frustri la nostra eterna voglia di pagare per venderci al peggior padrone possibile. Ci minacci, se è il caso. Faccia, La prego, questo grande esercizio di parresia, questo prezioso discorso di verità.

Probabilmente tale scelta genererà delle reazioni imbarazzate, forse indignate. Ci sarà qualche manifestazione di dissenso, sicuramente di disagio, tra chi la accompagna e la ascolta.

E però quanto sarebbe liberatorio per le nostri menti stordite, schizofreniche, per le nostre anime disordinate. Lei si conquisterebbe la gratitudine imperitura dei sardi di domani e di una parte consistente – anche se forse non maggioritaria – dei sardi di oggi.

Se Lei fosse disposto ad assecondare questo mio umile suggerimento acquisterebbe un nuovo significato simbolico, un significato davvero liberatorio come dovrebbe essere, il fatto che Lei, Giorgio, sia stato invitato in Sardegna nel periodo di carnevale.

Non voglio pensare a uno scherzo di cattivo gusto, perché so che queste circostanze sono preparate nel corso di lunghe settimane, col massimo riguardo per tutti gli aspetti formali e simbolici, incastrandosi armonicamente in una agenda di sicuro fitta di impegni. Nondimeno, che il fantoccio di re Giorgio debba bruciare alla fine del carnevale è una regola, è il rito da cui dipendono sia la cancellazione delle brutture del passato sia l’evocazione del buono e del bello per il futuro.

Ecco, sia Lei il nostro re Giorgio. Bruci se stesso – metaforicamente parlando – e ciò che rappresenta distruggendo l’apparato di mitologie tossiche, simboli artificiali, dogmi identitari deprivanti che fondano e canonizzano la nostra condizione storica subalterna. Bruci il fantoccio del nostro male di vivere, della nostra precaria esistenza storica, della nostra mancanza di coraggio.

Se farà questo, egregio presidente, avrà un posto nella storia dei popoli, darà un senso al suo ruolo nei confronti di una terra per Lei straniera e certamente incomprensibile, ma degna di esistere e di essere libera, per se stessa e non solo in funzione di interessi altrui.

Ci faccia questo dono, da grande e onorevole ospite. Così si guadagnerà finalmente quella stima e quel rispetto i cui sensi io e qualche altro sardo sentiamo di non poterle altrimenti dimostrare.