Smemoratezza offensiva

Mentre nei giorni scorsi si progettava, con sprezzo del ridicolo a dir poco stupefacente, una passeggiata di stampo patriottardo italico in quel di Oristano (e di Nuoro, ricordiamolo), a nessuno dell’intellighenzia sarda, di quella che egemonizza il sapere storico in Sardegna, è venuto in mente di ricordare invece un fatto vero, nostrano, significativo. Mi riferisco alla “congiura” di Palabanda, il tentativo di innescare un processo rivoluzionario messo in atto da intellettuali, borghesi e popolani in quel di Cagliari nell’ottobre del 1812.

Il 1812 fu un anno abbastanza importante, nella nostra storia. Mentre il mondo era scosso dalle guerre napoleoniche, la casata sabauda, detentrice della corona di Sardegna, se ne stava rintanata al sicuro nell’Isola, mai tanto necessaria e mai tanto disprezzata. Alle dure condizioni imposte dalla situazione di guerra (pensiamo solo ai rifornimenti navali, così vitali per un’isola), si sommavano da noi la durissima repressione di tutti gli strascichi politici lasciati dalla stagione rivoluzionaria (ricordiamo la cacciata dei piemontesi, il 28 aprile 1794, e i fatti che seguirono) e il peso della corte sabauda sulle finanze del regno.

Ad aggiungere disgrazia a disgrazie, il 1812 fu un terribile anno di carestia. È rimasta proverbiale “la fame del Dodici”, a Cagliari e dintorni. Niente di strano che le forze intellettuali e sociali più avvertite riprendessero lena e tentassero di rovesciare una situazione insostenibile.

Il tentativo fu fallimentare. Programmata per il 30 ottobre l’azione decisiva, la compagine dei congiurati venne tradita e denunciata alle autorità sabaude. Il tentativo insurrezionale si tramutò in una feroce dimostrazione di violenza autoritaria, con tanto di condanne a morte per impiccagione e ancora al carcere e “al remo”.

Non si trattava di una “congiura” di idealisti senza collegamenti con la società reale, come a volte questo episodio sembra essere descritto, ma di un vasto progetto di rovesciamento politico supportato da ampi consensi popolari. I nomi e le qualifiche di alcuni congiurati fanno fede in tal senso. Al fianco di avvocati, amministratori e intellettuali compaiono infatti pescatori e artigiani.

Bisogna tenere sempre a mente che la sconfitta di Giovanni Maria Angioy nel 1796 e l’arrivo della corte sabauda nel 1799 non avevano affatto comportato il raffreddamento delle pulsioni rivoluzionarie, sull’Isola. La stessa repressione violenta sembrava attizzare l’odio, più che sopirlo. Ricordiamo gli episodi più atroci della dura azione governativa contro qualsiasi anelito di libertà e indipendenza. Nel 1799, l’assedio e la devastazione di Thiesi, sollevatosi insieme a Banari e Bessude contro le pretese feudali, da parte delle truppe regie. Nel 1802, la repressione feroce del tentativo rivoluzionario di Cilocco e Sanna Corda, in Gallura. Episodi che si possono interpretare come la punta di un icesberg, la cui massa reale, molto più ampia, era costituita dalla diffusa insofferenza per le precarie condizioni del’Isola, dalla coscienza delle ragioni politiche di tale situazione e dall’aspirazione condivisa e trasversale nella società sarda ad un mutamento di regime.

La repressione della “congiura” di Palabanda (località oggi ricompresa entro lo spazio dell’orto botanico di Cagliari) fu l’ultimo episodio di una serie di atti ed eventi che a lungo animarono la vita politica e intellettuale della Sardegna. Da tale periodo l’Isola uscirà prostrata e più povera di prima. La politica attuata dal viceré Carlo Felice di Savoia, cui pure sono dedicati strade e monumenti, fu ferocemente reazionaria e spregiudicata nell’uso della forza.

Da quel momento, possiamo obiettivamente concludere, la Sardegna entrerà nella spirale di impoverimento, debolezza demografica e subalternità da cui non uscirà più, fino a oggi. Da lì inizierà il periodo più buio della nostra storia. A dispetto da quanto possa narrare la storiografia ufficiale, sempre molto conformista e ansiosa di riconoscimento accademico oltre Tirreno, il vero medioevo sardo comincia in concomitanza con la Grande Transizione Demografica e con le rivoluzioni industriali, ossia quando il resto d’Europa e una buona parte del mondo escono definitivamente dall’Antico Regime ed entrano a tutti gli effetti nella Modernità.

È sempre bene ribadire questi processi e questi eventi, dato che i sardi sono ancora in buona parte drammaticamente prigionieri di una storia che non appartiene loro e a cui non appartengono. Tanto più è necessario nel momento in cui ci si impongono patetiche celebrazioni tricolori, per giunta nei luoghi stessi in cui – come a Oristano – potremmo invece legittimamente celebrare una storia diversa, bella e significativa. E nostra.

In questo, la responsabilità della classe politica sarda oggi al potere, dell’università e dei mass media principali è evidentissima e non sarà mai troppo tardi per chiamarli a rispondere anche di questo vero e proprio crimine contro la nostra memoria, la nostra identificazione collettiva e la nostra dignità.