Conseguenze

L’Italia è in procinto di affrontare una gravissima crisi finanziaria, frutto sia delle scelte deleterie della sua classe politica degli ultimi trent’anni sia di un funzionamento dei meccanismi di bilancio, di credito e debito e di verifica degli stessi,  imposti da FMI, Banca Mondiale e da ultimo BCE. Si tratta di meccanismi tecnici fondati sulle tesi monetariste di matrice neolibrista o più correttamente di scuola neoclassica, vincolati agli interessi dei grandi gruppi economico-finanziari che controllano queste istituzioni internazionali. Non si parla di teorie scientifiche più o meno validate dalla prova dei fatti, ma di mera ideologia. L’ideologia  egemonica degli ultimi trent’anni.

Non si tratterà di niente di diverso da quanto accaduto in Argentina negli anni scorsi e da quanto sta accadendo in Grecia adesso. La Grecia è un esempio molto calzante, visto che anche lì gli effetti devastanti della crisi sono il “combinato disposto” di pratiche politiche corrotte e delle folli regole del gioco a cui gli stati devono soggiacere obtorto collo.

L’Italia non brilla per coesione interna e per solidità delle strutture portanti della sua economia e della sua convivenza civile. La storia non si può cancellare né eludere e i peccati originali si scontano davvero, in questo mondo, ma in termini materiali non spirituali. Lo stato italiano è nato male e cresciuto peggio: difficile adesso porre rimedio senza conflitti anche duri e senza devastazioni sociali e politiche.

Il discorso assume tinte ancora più fosche se riferito alla Sardegna. Noi siamo la classica pedina sacrificabile. Sia nel senso che, se si dovrà scegliere di infierire, sarà molto facile farlo su di noi, dati il nostro scarso peso demografico, territoriale e politico e la nostra distanza geografica. Sia per via di una patologica debolezza nella nostra autoidentificazione e nella nostra consapevolezza storica, che ci fanno sopportare qualsiasi torto, qualsiasi sottrazione, come se fossero giusti e meritati.

Pensiamo di essere degli inquilini a pieno titolo in una casa in cui invece non siamo nemmeno ospiti, ma la servitù. Se conoscessimo la nostra storia e quella del mondo, l’avremmo già capito da un pezzo.

Le scelte governative da noi si abbatteranno su una situazione già sull’orlo del collasso irrimediabile, senza che esistano anticorpi, senza che ci siano delle risorse pronte cui attingere, anche solo di natura culturale e politica. Pensiamo alle varie vertenze aperte, alla crisi di interi comparti economici, alla destrutturazione sistematica in campi come le infrastrutture materiali, la scuola e l’università, i trasporti.

Proprio nel settore dei trasporti tuttavia si osserva in nuce quel che potrebbe accadere nei prossimi anni. Di fronte a un problema strutturale la politica sarda deve prendere posizione e trovare soluzioni praticabili. Inevitabilmente queste scontentano assetti di potere costituiti e rapporti di forza consolidati. Una misura tampone, come quella assunta dalla giunta regionale con la “flotta sarda”, dal lato pratico una soluzione pressoché marginale, concepita prendendo a caso proposte già avanzate, senza crederci veramente, assume poi nei fati un valore di precedente e un significato simbolico che rischiano di sconquassare la scena. Significativa in proposito la reazione dei sindacati confederali. La preoccupazione dei sindacalisti sardi sono i posti di lavoro della Tirrenia. Ossia di quel baraccone statale che ha campato decenni mungendo le tasche dei sardi (il 90% degli introiti della Tirrenia viene dalle rotte da e per la Sardegna), le cui sedi operativa e fiscale non sono fissate sull’isola  e che imbarca per il 95% personale non sardo.

Allo stesso modo il centrosinistra sardo non trova di meglio che contestare la misura, senza però proporre una soluzione alternativa, magari strutturale, pianificata per risolvere alla radice la questione strategica della mobilità via mare dei sardi.

Il governo italiano, dal canto suo, spinto dall’urgenza di vendere la Tirrenia, considera pessima la scelta della giunta sarda, dato che rischia di far calare l’interesse del cartello oligopolistico privato cui pensa di rifilare il baraccone.

È evidente dunque che manca totalmente una visione d’insieme dei nostri problemi e delle nostre necessità centrata su noi stessi. Nella classe politica sarda e nei centri di interesse che la sostengono non c’è un senso di appartenenza condiviso a una collettività storica definita – definita prima di tutto dalla geografia – quale noi siamo. Manca una prospettiva sul medio e sul lungo periodo, e forse anche sul breve, dato che si ha l’impressione che navighino a vista.

Ma è altrettanto evidente che siamo in prossimità di una situazione in cui sarà giocoforza necessario prendere decisioni forti, anche drastiche, che ci sia o non ci sia nei ruoli chiave personale all’altezza della sfida. Si sta già presentando il redde rationem, il regolamento dei conti, a cui persino il più ignavo dei politicanti sardi non riesce a sottrarsi. Con la conseguente necessità di fare qualcosa per forza, magari a dispetto dei propri mandanti. Sarà una circostanza ricorrente negli anni a venire. Ci sarà da stare sul chi vive. Vedremo se la potenzialità di azione e partecipazione civile emersa nell’ultima tornata elettorale e referendaria saprà declinarsi in termini politici unitari, consapevoli, sovrani.

Più che lamentarsi dunque sarebbe meglio aggregare forze, suscitare partecipazione e collaborazione. Se non ci assumiamo questa responsabilità storica, subiremo più di altri le conseguenze della transizione traumatica e violenta in cui siamo già entrati. L’alternativa è sperare  che l’Italia per salvare se stessa ci venda al miglior offerente e che il nuovo padrone sia più magnanimo di quello vecchio.