Il dominio del falso

E’ un caso che abbia deciso di scrivere questo pezzo il giorno della morte di Francesco Cossiga. Ma potrebbe non esserlo. Cossiga è stato l’emblema di una certa concezione della sardità che ha radici chiare e facilmente individuabili. Lui stesso si vantava di essere imparentato con Camillo Bellieni, ideologo dell’autonomismo moderno sardo e co-fondatore del Partito Sardo d’Azione, con E. Lussu.

La visione dei sardi propugnata e infine imposta da Bellieni è quella che ha dominato la Sardegna contemporanea, definendo una mitologia, tecnicizzandone i canoni, i contenuti e i significati: quella dei sardi come “nazione abortiva”, bisognosi della luce di una civiltà superiore (quella italiana!) per uscire dal buio della loro storia ferina e subalterna.

Tutta la retorica del sardismo si può infatti racchiudere nell’endiadi “orgoglio e integrazione”, come suggerisce Franciscu Sedda. A tale massima si è costantemente attenuto lo stesso Cossiga, orgoglioso della propria sardità, che però egli considerava un valore solo in funzione degli interessi dell’Italia. Niente di strano dunque se da sottosegretario alla Difesa, nel giugno 1969, promosse l’occupazione militare dei pascoli pubblici di Orgosolo, in località Pratobello. Occupazione punitiva, chiaramente, che suscitò ampio malcontento nella popolazione, fino ai cosiddetti “moti di Pratobello”, che costrinsero il governo italiano a recedere dal proposito.

Ma questa è solo una divagazione, rispetto a quanto intendevo scrivere.

Eppure ha a che fare con quanto segue.

Riporto ciò che si legge sulla quarta di copertina di un importante libro di storia giuridica:

La Carta de Logu, emendata da Eleonora d’Arborea e redatta in volgare sardo, è riconosciuta dalla storiografia come uno dei più importanti statuti italiani del Trecento.

Da: Italo Birocchi, Antonello Mattone (a cura di), La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, Roma-Bari, Laterza, 2004

Cosa c’è di notevole in questo breve testo? Fondamentalmente che è falso. Ossia, non veritiero. Scorretto in termini scientifici e portatore di un significato non valido.

Definire la Carta de Logu di Arbarèe uno statuto “italiano” è una grossolana menzogna, talmente enorme che si fa fatica ad accettarne l’esistenza, per di più in una pubblicazione dotata dei crismi dell’autorevolezza, senza provare sentimenti di fastidio e profonda contrarietà.

Fino al secondo quarto del XX secolo a nessuno sarebbe venuto in mente di definire i sardi come italiani. Fino alla Prima Guerra Mondiale eravamo semplicemente una razza delinquente, dai costumi esotici, di presumibile estrazione semitica (quindi, non c’è bisogno di dirlo, inferiore). Dopo, diventati eroi da trincea (leggi: carne da macello), ci si arrampicò sugli specchi per trovarci una collocazione etnica meno problematica, nell’alveo delle collettività rispettabili. Tant’è vero che, quando l’antisemitismo prese piede anche nel regime fascista, lo stesso Emilio Lussu ebbe buon gioco a polemizzare con la politica razzista italiana rivendicando provocatoriamente le proprie origini fenicie (sic!).

Insomma, italiani mai, noi sardi. Caso mai, italiani speciali. Come tali, bisognosi di tutela e di particolari sostegni, da brava nazione fallita (Lussu, 1951).

Ovviamente, come popolo minus habens, per definizione non possiamo avere avuto una Storia degna di questo nome. Ma se caso mai qualcosa di significativo, per ragioni imperscrutabili, l’avessimo mai combinata, tale risultato sarebbe da ascrivere alla civiltà italiana.

Io mi immagino uno di questi storici accademici nostrani, così compresi nel loro ruolo di falsificatori del nostro mito collettivo da dirlo anche esplicitamente*, alla corte di Eleonora d’Arborea, decisi a sostenere l’italianità della Sardegna del 1392. Probabilmente, sarebbero stati trattati come dei matti e l’avrebbero finita a chiedere l’elemosina alle fiere e alle feste patronali, come gli scemi del villaggio.

Eppure, questa visone distorta e autocastrante è quella che domina ancora, sia nell’università sarda (ossia, italiana in Sardegna), sia sui mass media mainstream.

Siccome oggi e nei prossimi giorni ne sentiremo delle belle circa l’orgogliosa appartenenza sarda di Cossiga e la sua dedizione alle istituzioni italiane, come se le due cose fossero perfettamente conseguenti, gettare un seme di dubbio in tutto questo marchingegno propagandistico forse non sarà del tutto inutile.

Cus sas animas chi sias, Frantzi’, si t’ant a cherrer!


*A proposito di autonomia regionale: “lo storico può parlare di un’utopia ‘realistica’, alla cui funzione davvero conviene credere“, I. Birocchi in: AAVV. (a cura di L. Berlinguer e A. Mattone), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Torino, Einaudi, 1998, pag. 199.